6 dicembre 2011

Tanti auguri aree protette

LINK CORRELATI:
intervista a Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi
Il commento di Antonio Nicoletti (Legambiente)
"E' tempo di futuro"
Tre domande a:
Danilo Selvaggi (Lipu)
Franco Ferroni (Wwf)




PARCHI SUL FILO

La Legge quadro sulle aree protette compie vent’anni. Fra specie salvate e territori valorizzati. La scommessa di una nuova governance e le incertezze per il futuro
di Francesco Loiacono

Il 6 dicembre la Legge quadro sulle aree protette, la numero 394 del ’91, compie vent’anni. Un compleanno che giunge in una fase delicata come non mai, con il cambio di governo e la stagione di ristrettezze imposte dalla manovra economica.
I numeri di questi primi venti anni, comunque, sono certamente dalla parte della normativa andata in porto, al termine di un iter parlamentare iniziato nell’87, mentre era ministro Giorgio Ruffolo: ha fatto alzare la superficie di territorio protetto in Italia dal 3 all’11%, sono nati 18 nuovi parchi nazionali, per non parlare delle decine di parchi regionali e delle aree appartenenti alla rete Natura 2000 grazie ai quali la percentuale sale al 20. 
I risultati nella tutela della biodiversità non mancano: sulle nostre montagne si è rafforzata la presenza di specie in pericolo come il lupo, giunto fino ai Pirenei, lo stambecco e la lince. Sull’Appennino si sono salvati dall’estinzione il camoscio, l’orso bruno e, sul fronte della flora, il pino loricato. Un successo che ha visto protagonisti i buoni amministratori e anche i cittadini visto che la legge attribuisce un ruolo ai comuni nella gestione e favorisce la condivisione delle responsabilità con le comunità locali. 
In questo “ventennio verde” però non mancano le ombre. «Sebbene fossero previsti dalla legge, mancano ancora la Carta della natura e le Linee fondamentali per l’assetto del territorio» si legge nel documento “Un nuovo futuro per i parchi, la biodiversità e le politiche di sistema” presentato da Legambiente durante il convegno tenuto su questo tema poche settimane fa al Parco dell’Appia antica. 
Ma è la burocrazia ad aver indebolito la 394: i meccanismi di nomine dei presidenti e dei direttori sono stati farraginosi creando molte situazioni di stallo risolte dalla nomina dei commissari. Legge, insomma, che dopo vent’anni ha bisogno di un tagliando. Un lavoro nel quale è impegnata la Commissione ambiente al Senato che ha aperto una discussione sulla modifica della legge che suscita interesse e confronto nel mondo ambientalista. «Se non ci saranno traumi e la legislatura si concluderà nei suoi tempi naturali, possiamo portare in porto il disegno di legge», confida il senatore Antonio D’Alì, presidente della commissione Ambiente. 
Dunque c’è da costruire il futuro delle aree protette. E se i soldi per le spese fisse sono stati già assegnati per il 2012, con 61 milioni previsti dalla legge di bilancio, «per le aree marine protette è prevista la riduzione della metà dei fondi disponibili – lamenta Stefano Donati, direttore dell’amp delle Egadi – In questa maniera si dichiara la fine di una strategia nazionale per la tutela del mare». «Ridurre la spesa pubblica è un alibi – denuncia il senatore Roberto Della Seta – perché l’ultima legge di stabilità ha destinato 400 milioni in più all’autotrasporto, soldi con cui i parchi vivrebbero per sei o sette anni. La spesa peri cacciabombardieri manterrebbe in vita le aree protette per decenni». 
La scarsità di risorse per gli investimenti è una condizione alla quale i parchi sono abituati da anni. «Per gli investimenti non c’è nulla, non da oggi ma da quando è stato soppresso il programma triennale. Quindi sta alla capacità dei parchi trovare i finanziamenti – dice Nicola Cimini, direttore del Parco della Majella – Per i prossimi due o tre anni non avremo problemi perché partecipiamo a bandi europei e di privati, come le Fondazioni». 
Tra le forme di autofinanziamento si discute inoltre delle royalty: un modo per “monetizzare” beni e servizi come acqua, ossigeno e biodiversità che le risero ve naturali garantiscono. In vista di una nuova governance che possa restituire ai parchi il ruolo che gli spetta nell’economia di un paese che ospita un terzo delle specie animali e metà di quelle vegetali del Vecchio continente. 

(Pubblicato su Nuova Ecologia - dicembre 2011) 

 
I NUMERI

23 Parchi nazionali

1.391.746ha a terra e71.812 ha a mare

27 Aree marine protette
222.442,53 ha a mare
652 km di costa

147 Riserve naturali statali
122.775 ha a terra

134 Parchi regionali
1.294.655,87 ha a terra

3 Altre aree naturali protette nazionali
2.557.477 ha a mare
5,7 km di costa

365 Riserve naturali regionali
230.240,21 ha a terra
1.284 ha a mare

171 Altre aree naturali protette regionali
50.237,72 ha a terra
18,40 ha a mare

870 TOTALE AREE NATURALI PROTETTE
3.089.655,71 ha a terra
2.853.033 ha a mare
658,02 km di costa

La legge quadro sulle aree protette compie 20 anni. Tre domande a...

FRANCO FERRONI (WWF Italia)

Quali sono stati i pregi della 394?
In questi 20 anni l’Italia è stato il paese europeo che ha istituito il maggior numero di aree protette. È stato così arginato il consumo di suolo, e il divieto di caccia e alcuni progetti hanno messo in sicurezza specie a rischio come il lupo e il camoscio appenninico. Inoltre i parchi hanno offerto occupazione verde a giovani qualificati e promosso nuova economia.
Franco Ferroni, Wwf Italia

Quali i difetti?
Non sono mancati problemi legati alla burocrazia, ai tempi lunghi per l’approvazione di atti e strumenti di gestione, all’occupazione politica di ruoli e poltrone. Per mancanza di obiettivi dichiarati e relativi indicatori nella gestione resta piena d’incognite la sfida della qualità e dell’efficacia di gestione rispetto alla missione dei parchi, che resta la conservazione della biodiversità.

Che cosa cambiare della legge?
Poco o nulla dell’originaria impostazione (tra l’altro già modificata nel 1998 con la Legge n.426). In Parlamento c’è chi propone una riforma della 394 che il Wwf valuta non opportuna, pericolosa e fuorviante per i suoi contenuti rispetto ad altre priorità. Serve piuttosto dare un forte impulso alla gestione delle aree protette, “fare sistema” e cogliere le uniche opportunità che nell’immediato futuro saranno offerte dai fondi dell’Unione Europea.

Sammuri: "Con la 394 è cresciuta l’Italia protetta"

Intervista a Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi 

Giampiero Sammuri (Federparchi)
foto di Francesco Loiacono
La legge 394 ha fatto crescere il territorio protetto in Italia. Ma adesso per superare le difficoltà economiche bisogna trovare nuove forme di finanziamento, e puntare sulla qualità di gestione delle aree protette. Ne parliamo con il presidente di Federparchi Giampiero Sammuri, che fa un bilancio e auspica un futuro di qualità delle aree protette italiane.



Qual è il bilancio di questi primi 20 anni della 394?È positivo nell’applicazione della legge. Questa ha consentito la nascita di tantissime aree protette in Italia. Naturalmente come succede quando una legge dura venti anni ci sono state anche molte ombre oltre a numerose luci, ed è per questo che è necessario fare, come qualcuno l’ha chiamato, un tagliando alla legge.


Che cosa non ha funzionato bene?
Sicuramente la macchinosità della gestione, nel senso che c’è un po’ troppa burocrazia per approvare il piano del parco. Il piano di sviluppo economico e sociale si è rilevato inutile, i suoi contenuti possono essere inseriti nel piano del parco. Questa macchinosità ha pesato sul piano della governance. 


Pare sempre più probabile un futuro in cui ai parchi verranno destinate dallo Stato poche risorse. Come si può rimediare?Purtroppo ci avviciniamo a una fase difficile per le finanze pubbliche. Quindi trovare dei finanziamenti è importante. Sia chiaro che devono essere aggiuntivi non certo sostitutivi di quelli pubblici. Le royalties possono finanziare le attività che si svolgono nei parchi.


Può fare un esempio?
In molti parchi italiani ci sono dei bacini idroelettrici, questi producono energia e numerose risorse ma i parchi non ne traggono alcun beneficio. Quindi una royalty da queste attività a favore dei parchi mi sembra una cosa più che giusta. Si può fare anche per l’acqua idropotabile, quella minerale e così via.
 

Pensa che ci sia bisogno di altre aree protette?
Sinceramente non credo, sono ormai quasi il 20% del territorio nazionale se conteggiamo anche il sistema delle aree Natura 2000. Penso che si debba lavorare di più sulla qualità di gestione delle aree protette.  

 

La legge quadro sulle aree protette compie 20 anni. Tre domande a...

DANILO SELVAGGI (Lipu)


Quali sono stati i pregi della 394?
Danilo Selvaggi (Lipu)
Ha preservato una parte consistente del territorio italiano dalle ferite che, altrove, le mille forme della speculazione gli hanno inflitto. Senza le aree protette e le battaglie per la natura, l’Italia sarebbe oggi un enorme abuso edilizio, un gigantesco ecomostro. Inoltre, la 394 ha aperto un grande capitolo di conservazione della natura di cui eravamo privi.
Quali i difetti?
Le difficoltà e i limiti non mancano. Quanta conservazione si è fatta davvero e quanta se ne potrebbe fare, di più e meglio? Quanto, le aree protette, hanno ceduto al ricatto della peggiore politica? Ancora, quanto serve, sotto il profilo legislativo, in termini di integrazione e armonizzazione delle norme naturalistiche? Si pensi, ad esempio, al rapporto ancora complesso tra i parchi e la rete Natura 2000.
Che cosa cambiare della legge?
Più che cambiare, occorrono soprattutto un coraggio e una dignità ritrovati: saper dire che i parchi sono importantissimi, che una nuova speranza per le nostre vite, economie, comunità, passa anche dall’occasione di una società armonica con la natura. Poi, risulterebbe utile migliorare la programmazione conservazionistica e scientifica, e creare nuovi motivi di attrazione verso le comunità locali.

È tempo di futuro


di Antonio Nicoletti*

Nel dare un giudizio sui vent’anni della 394/91 è giusto sottolineare l’innovazione che ha apportato nella gestione delle aree protette. È stato uno strumento fondamentale per realizzare un sistema diffuso di aree per la tutela della biodiversità, condiviso, partecipato e federalista. Grazie alla legge si è passati dai 5 parchi del ‘91 ai 23 di oggi, dal 3 all’11% di territorio protetto. Nei suoi contenuti fondamentali è stata attuata, soprattutto rispetto ai principi e al regime giuridico delle aree protette, alla realizzazione del sistema nazionale e al modello autonomo dell’ente parco, alla co-presenza nel consiglio direttivo di rappresentanti della politica, degli interessi diffusi e della ricerca, nell’aver previsto incentivi a favore dei territori e aver attribuito all’ente parco poteri pianificatori sovraordinati.

Antonio Nicoletti, Legambiente
Ma dopo vent’anni è tempo di riflettere su come la “manutenzione” della normativa può rilanciare l’esperienza dei parchi e sulle possibilità che il rinnovamento del sistema può offrire contro la perdita della biodiversità, e per incentivare lo sviluppo sostenibile. Esistono diversi punti che hanno bisogno di essere migliorati perché il sistema di tutela risulti davvero efficace e integrato. In particolare necessita di un adeguamento alle esigenze delle direttive europee successive al ‘91, che la gestione delle aree marine sia omologata a quella dei parchi, di una semplificazione della governance degli enti parco che ne riduca i componenti e li sburocratizzi. Bisogna inoltre migliorare il ruolo della comunità del parco e il rapporto fra cittadini ed enti parco, potenziando trasparenza e partecipazione. La modifica sarebbe anche un’opportunità per far emergere i parchi dal cono d’ombra in cui sono relegati da oltre un decennio. Va contenuta l’invadenza della politica nella scelta dei presidenti e il ricorso ai commissariamenti, recuperato un rapporto di collaborazione con le Regioni nella pianificazione per far diventare i parchi laboratori di green economy.

Le aree protette devono incidere di più nelle scelte per mitigare i cambiamenti climatici: per questo deve aumentare la percentuale di territorio tutelato, come da accordi già presi in sede internazionale (entro il 2020 il 17% a terra, 10 mare e coste), investire per evitare il degrado del territorio e recuperare un ruolo nelle strategie euromediterranee di conservazione. L’anniversario, insomma, deve essere l’occasione per immaginare un nuovo futuro per i parchi, di cui abbiamo ancora bisogno.

* responsabile aree protette di Legambiente

6 novembre 2011

Italia in piena, ancora una volta

Ci risiamo. Esattamente un anno fa su La Nuova Ecologia pubblicavamo un'inchiesta sul dissesto idrogeologico nel Belpaese. Durante la lavorazione mi trovai a Reggio Calabria durante un temporale che ha paralizzato una città percorsa da numerose fiumare in stato d'abbandono e degrado, per ore. E questo a solo un mese di distanza da un violento temporale che aveva messo in ginocchio la città dello Stretto. Sempre un anno fa, a settembre, la metropolitana di Milano fu bloccata per dieci giorni da un violento acquazzone e il 5 ottobre tre donne cinesi persero la vita in un sottopasso allagato a Prato. Ma non finisce qui, dopo tre settimane di ricerche il corpo di Francesca Mansi, una ragazza trascinata in mare da una frana ad Atrani, sulla costiera amalfitana, fu ritrovato senza vita alle isole Eolie (!). E a Genova, dopo un nubifragio costato la vita a una persona, scoppiarono le polemiche intorno a una palazzina i cui pilastri sorgono sul torrente Chiaravagna. Ora quel palazzo è ancora in piedi, i soldi per sgomberarlo ci sono da luglio ma manca il parere del governo sui risarcimenti.

E  mentre le polemiche continuano con le parole di sempre, continuiamo a perdere vite umane e la bellezza di luoghi che la storia ci ha, indegnamente, consegnato.

PDF: ITALIA IN PIENA

7 ottobre 2011

Fronte del coke


Tredici centrali per quasi 40 milioni di tonnellate di CO2 l’anno. E altre rischiano di arrivare. Da Saline Joniche a Porto Tolle gli ambientalisti protestano contro il carbone
di Francesco Loiacono

Il nucleare, grazie alla schiacciante vittoria nei referendum di primavera, è andato finalmente in soffitta: rimane da gestire lo smantellamento delle centrali e lo stoccaggio delle scorie che ci lascia in eredità la controversa stagione dell’atomo tricolore. Ma sulla via della rinnovabili gli ostacoli non sono finiti. Anzi. All’orizzonte si prepara l’offensiva delle grandi lobby energetiche che puntano ad occupare il mercato investendo sulle fonti fossili. «In Italia l’alternativa al nucleare è il carbone» si era affrettato del resto a dichiarare subito dopo il 12 giugno l’amministratore delegato dell’Enel, Fulvio Conti, che prospetta per questa fonte una crescita nei prossimi anni dal 14% al 20% dei consumi. Vietato abbassare la guardia, insomma. E non a caso gli ambientalisti si preparano ad una nuova stagione di mobilitazioni lanciando per sabato 29 ottobre una grande manifestazione intorno alla centrale Polesine Camerini di Porto Tolle, nel parco del Delta del Po, dove l’Enel punta da tempo a riconvertire al coke il vecchio impianto a olio combustibile. Parallelamente altri presidi si svolgeranno negli altri siti su cui insistono, o dovrebbero insistere, le centrali a carbone del Bel paese: 13 impianti per circa 37 milioni di tonnellate (Mt) di CO2 l’anno (dati 2010) più altri sei che rischiano di aggiungere al conto ulteriori 28 Mt di gas climalteranti. Tanto da fare dell’Enel, con circa 40 Mt, il principale emettitore italiano di CO2 in larga parte (26 Mt) a causa proprio del coke. «Dopo la vittoria contro l’atomo – annuncia Maria Maranò, rappresentante di Legambiente nel comitato “Fermiamo il nucleare” – abbiamo promosso un forum per l’energia che guiderà le mobilitazioni contro il carbone, che adesso fa da ostacolo alle rinnovabili. Quello di Porto Tolle sarà il primo appuntamento».

Delta bollente
Proprio qui, sul Delta del Po, si consuma la battaglia forse più significativa intorno all’utilizzo del carbone. Da una parte ci sono Enel, Regione Veneto e governo affiancati da un comitato di lavoratori della centrale che temono per il proprio futuro occupazionale. Dall’altra il comitato locale dei cittadini di Porto Tolle che insieme a Greenpeace, Italia Nostra, Wwf e Legambiente si oppongono alla riconversione proponendo di alimentare la centrale a gas metano. Un conflitto che si trascina ormai da quasi un decennio fra blitz, carte bollate e anche una condanna per gli ex-vertici dell’Enel, nel gennaio scorso, per emissioni moleste, danneggiamento all’ambiente e violazione della normativa in materia di inquinamento atmosferico causato dall’impianto quando era alimentato a olio combustibile. Durante gli ultimi mesi poi il braccio di ferro ha toccato un nodo cruciale. A maggio, infatti, il Consiglio di Stato aveva bloccato i lavori di riconversione annullando la Via concessa dal ministero dell’Ambiente poiché non rispettava l’articolo 30 della legge istitutiva del Parco. Quello cioè che sostiene come «tutti gli impianti di produzione di energia elettrica presenti nel territorio dei comuni interessati al parco del Delta del Po, dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti alternative non inquinanti». Come dire: per il carbone da queste parti non c’è spazio. Il governo invece è intervenuto approvando, nella manovra di luglio, un articolo “ad centralem” per superare la sentenza: il testo consente di derogare alle leggi regionali che condizionino o limitino la riconversione delle centrali ad olio combustibile da alimentare a carbone. Un colpo basso perfezionato dalla Regione Veneto, governata da Luca Zaia, che ha modificato la legge istitutiva del Parco aprendo la strada alla fonte fossile. «Se i rappresentanti del popolo modificano una norma per dare ragione ad una delle due parti in causa, lo Stato di diritto vacilla» spiega senza troppi giri di parole Matteo Ceruti, l’avvocato che difende da sempre le ragioni degli ambientalisti. La situazione adesso è di stallo: «È ricominciata una procedura di Valutazione di impatto ambientale – prosegue – Si presume che la commissione competente debba esprimersi entro le prossime settimane ma non sappiamo se l’Enel ha presentato una documentazione integrativa. Inoltre il parere sarà dato senza riascoltare le amministrazioni locali coinvolte. Siamo comunque pronti a fare ricorso nel caso la prossima Via non dovesse tener conto delle alternative, come il metano». Al Tar del Lazio pende inoltre un ricorso contro il Decreto di autorizzazione unica rilasciato all’inizio dell’anno dal ministero dello Sviluppo. E ancora, per completare il quadro della vertenza, le amministrazioni regionali possono ricorrere alla Consulta contro la norma approvata a luglio: potrebbe farlo, ad esempio, la confinante Regione Emilia Romagna, che ha già espresso il proprio no alla riconversione. 

Costi drogati
Ma la battaglia contro il carbone va ben oltre il sito rodigino. Negli altri cinque territori destinati a ospitare nuovi impianti o ampliamenti (Fiume Santo e il Sulcis in Sardegna, Vado Ligure in Liguria, Saline Joniche e Rossano in Calabria) la mobilitazione è già elevata anche a causa dei rischi per la salute che comporta il cocktail di inquinanti (fra cui arsenico, cromo, cadmio e mercurio) emessi dalla combustione. A Civitavecchia un incendio divampato ad agosto da un trasformatore, con la nube che si è sparsa su tutta la città, ha rianimato il fronte no-coke sollevando nella popolazione gli interrogativi sulla sicurezza. Mentre altrove sono i numeri a dimostrare l’iniquità di questa scelta: a fronte di una produzione del 14% di elettricità nel 2010 gli impianti a carbone hanno sforato i limiti europei (al saldo di Civitavecchia, dove le quote di allocazione fanno riferimento agli impianti “nuovi entranti”) di oltre un milione di tonnellate. «Ma quando l’economia riprenderà a correre c’è da credere che lo sforamento sarà ancora maggiore» spiega Giorgio Zampetti, dell’Ufficio scientifico di Legambiente. Anche perché fra i dieci impianti più inquinanti d’Italia, riporta il dossier dell’associazione Carbone, un ritorno al passato, figurano proprio quattro centrali termoelettriche alimentate a carbone: Brindisi Sud, Fusina-Venezia, Fiume Santo-Sassari, e Vado Ligure. E se qualcuno crede che la tecnologia per il sequestro del carbonio, che l’Enel sta sperimentando a Brindisi Sud, possa rappresentare una soluzione si sbaglia di grosso: «L’efficacia e l’impatto ambientale di questa tecnologia sono ancora da valutare, le sperimentazioni vanno a rilento in tutta Europa – spiega Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto club e del bimestrale QualEnergia – Senza contare che tutte le valutazioni indicano che non si avrà uno stoccaggio a prezzi competitivi prima del 2030». È proprio dal punto di vista economico che le contraddizioni sono evidenti: uno studio dell’istituto di ricerche McKinsey del 2009 dice che i costi per catturare la CO2 sono talmente proibitivi da richiedere l’intervento dello Stato con l’erogazione di sussidi. La Commissione europea ha inoltre stimato intorno ai 3 miliardi di euro l’anno gli aiuti dei governi per il carbone. Due di questi sono peraltro destinati alla Germania, presentata come un modello dai sostenitori del carbone, dove ancora oggi il 50% dei consumi energetici, nonostante l’ascesa delle rinnovabili, è soddisfatto dal coke. Dopo quella del nucleare sicuro, insomma, ecco un’altra bufala: quella del carbone pulito e conveniente. Gli ambientalisti sono pronti a smascherarla.

Pubblicato su Nuova Ecologia - ottobre 2011

4 ottobre 2011

Centrali a carbone, Saline Joniche stringe alleanze in Europa

Il movimento italiano contro il carbone stringe alleanze all’estero. Lo scorso 27 agosto alcuni rappresentanti di Legambiente hanno partecipato a una grande manifestazione internazionale contro il carbone a Coira, in Svizzera. Nella città del Canton dei Grigioni, gli ambientalisti elvetici hanno manifestato dietro lo striscione “Kein Kilmanschaden aus Graubunden, Repower kolhe kraftwerke ade!”, ovvero “Dai Grigioni non deve partire nessun danno all’ambiente, stop all’energia fossile della Repower!”. Gli ambientalisti transalpini non vogliono concorrere all’inquinamento del pianeta, dal momento che il Cantone dei Grigioni partecipa con una quota del 46% in Repower, l’azienda svizzera che vuol costruire una centrale nel nord della Germania, a Brunsbuttel, e una in Italia, a Saline Joniche, in provincia di Reggio Calabria. I due nuovi impianti emetterebbero, secondo gli ambientalisti, una quantità di CO2 superiore al 40% delle emissioni dell’intera Svizzera.


«Realizzare una centrale a carbone a Saline Joniche è una follia e un paradosso per la Calabria, una regione che esporta energia per una quota del 50% rispetto alla produzione – spiega Nuccio Barillà, del direttivo nazionale di Legambiente e in rappresentanza del coordinamento “No al carbone” delle associazioni dell’area grecanica – Il sito scelto da Repower (che partecipa come socio di maggioranza alla società Saline energie joniche, ndr) è un tratto di costa tra i più suggestivi dell’Italia meridionale, dove esistono aree a protezione speciale o siti d’interesse comunitario, ed è tappa degli uccelli che migrano dall’Africa verso l’Europa». Inoltre la Regione Calabria, che ha espresso tramite un voto unanime del Consiglio la sua contrarietà alla centrale, ha approvato un Piano energetico che fa assoluto divieto dell’utilizzo del carbone per fini energetici e punta sulle fonti rinnovabili.  A Saline Joniche e a Rossano (Cs), dove è in corso una procedura di Via per la costruzione di una centrale a carbone da 1200 MW, il 29 ottobre terminerà la carovana CAraLABRIA. Il viaggio in 16 tappe che mette in luce le bellezze e le qualità calabresi si concluderà il giorno della mobilitazione nazionale contro il carbone. Per dire che anche la Calabria è no coke.
 

LINK: CAraLABRIA

È partita CAraLABRIA


Carovana delle qualità e delle bellezze calabresi, dall’1 al 29 ottobre




È partita l’1 ottobre da Riace, paese dei bronzi e dell’accoglienza, CAraLABRIA, il viaggio in 16 tappe tra luoghi, culture, paesaggi e storie dal territorio calabrese. La carovana di Legambiente, che si concluderà il 29 ottobre a Rossano (Cs) vuol mettere sotto i riflettori alcuni tesori ambientali e territoriali, le esperienze virtuose di pregio scelte come esempi delle buone energie, spesso sconosciute, che ci sono nella Regione. Saranno messe in evidenza esperienze nel campo dell'innovazione legata all'ambiente, esempi di recupero di paesi abbandonati o di rilancio delle tradizioni e delle tipicità meno inflazionate, i risultati positivi della gestione dei beni confiscati alla 'ndrangheta.

Leggi il diario della carovana sul sito di Legambiente Calabria


29 settembre 2011

L'atomo nel Cantone

La Svizzera rinnega il piano energetico del 2007 e si prepara a spegnere le centrali nucleari a fine ciclo. La svolta punta su efficienza e rinnovabili. Perché conviene

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La Svizzera ha deciso di non prolungare la vita delle sue centrali nucleari e di cambiare sistema energetico. Sembra lontano il 2034, anno in cui sarà spenta l’ultima delle cinque centrali, quella di Leibstad, che adesso producono il 40% dell’elettricità. Ma Berna comincia a progettare un nuovo mix energetico, senza l’atomo e con più rinnovabili. E a cambiare radicalmente strada, visto che solo nel 2007 il Consiglio federale elvetico approvava una strategia energetica basata sulla costruzione di tre nuove centrali nucleari. Una decisione sulla quale i cittadini si sarebbero espressi con un referendum in programma nel 2013. Dopo il disastro alla centrale giapponese di Fukushima il governo svizzero ha pensato bene di anticipare i tempi e di non aspettare la probabile bocciatura del referendum. Guidato dal ministro dell’Ambiente, Doris Leuthard, l’esecutivo ha così deciso di disattivare gli impianti a fine vita. La decisione ha l’approvazione del Consiglio nazionale, la loro Camera dei deputati. Nel secondo ramo del Parlamento, il Consiglio degli Stati, si discute invece su una possibile riapertura al nucleare di quarta generazione.

Roger Nordmann, consigliere nazionale
«Anche se si attende la votazione definitiva del Consiglio di Stato, e a fine ottobre ci saranno le elezioni per il nuovo governo, la strada per l’uscita dal nucleare è ormai tracciata». Fuga ogni dubbio il consigliere nazionale del partito socialista, Roger Nordmann, che auspica e promuove un futuro energetico rinnovabile. Nordmann, autore del libro Senza nucleare e senza petrolio nell’avvenire, che nella versione francese è titolato Liberare la Svizzera dalle energie fossili, crede che entro il 2050 la Svizzera possa raggiungere il 100% di energia rinnovabile. «Per l’elettricità possiamo farlo in 15 anni, sempre se c’è la volontà. Per fare a meno dei combustibili fossili è necessario un ulteriore progresso tecnologico. Le centrali nucleari, invece, andrebbero spente entro il 2025, senza superare il limite di 40 anni di servizio. Quella di Muhleberg, poi, andrebbe chiusa subito perché non soddisfa criteri adeguati di sicurezza». La strada è sicuramente lunga ma la volontà di percorrerla non manca.

«Stiamo per dire addio al nucleare e benvenute alle rinnovabili, entreremo presto nel mercato europeo dell’energia – annuncia Lukas Gutzwiller dell’ufficio federale dell’Energia – Stiamo introducendo delle misure di efficienza che ci porteranno a una diminuzione dei consumi energetici del 20-30%. Nei servizi, ad esempio, possiamo risparmiare facilmente il 30% di elettricità. Le attuali prospettive mostrano che un abbandono graduale è possibile a livello tecnico e sostenibile sul piano economico. I prezzi per l’energia elettrica sono destinati a salire, e questo – conclude Gutzwiller – attenuerà le ripercussioni del nostro abbandono dell’atomo». L’ufficio federale stima che la riconversione energetica e le misure per la contrazione della domanda impegneranno risorse tra lo 0,4 e lo 0,7% del Pil.

Uno sforzo che non fa paura. «La rinuncia al nucleare è digeribile, e a medio periodo sarà conveniente – afferma Bruno Oberle, direttore dell’ufficio federale dell’Ambiente – L’uscita dall’atomo è un’etichetta, in realtà vogliamo fare una svolta verso una nuova fase di produzione energetica, è giusto quindi impegnare queste risorse. D’altronde gli investimenti nella gestione ambientale ammontano a circa 10 miliardi di franchi l’anno, il 2% del Pil». Il punto di forza di questa svolta energetica sarà la ricerca: quella ambientale costa allo Stato mezzo miliardo di franchi all’anno, su un totale di 5 miliardi. «Vuol dire – riprende il direttore Oberle – che il 10% è investito in ricerca ambientale: punte d’eccellenza sono i centri di ricerca sul clima di Berna e Zurigo, senza contare che l’Ipcc ha sede a Ginevra. Il nostro slogan è: la politica ambientale è gestione delle risorse naturali, quindi è gestione economica». L’uscita dal nucleare, insomma, è una questione di conti. Conviene e si fa.

PS La camera alta del parlamento svizzero ha dato l'ok allo stop alla costruzione di nuove centrali nucleari introducendo misure che incoraggiano le rinnovabili e la continuazione della ricerca sul nucleare.

Pubblicato su Nuova Ecologia

6 settembre 2011

Armi chimiche, segreti esplosivi


di Francesco Loiacono
Le armi chimiche prodotte durante il fascismo minacciano gli ecosistemi del Belpaese. Un arsenale inquinante sulla cui esistenza ha rotto il silenzio Gianluca Di Feo con il libro 'Veleni di Stato'


L'editoriale di G. Di Feo: Misteri di guerra
L'esperto: Salviamo i nostri fondali

Avvelenano da decenni i nostri mari, i laghi, le falde idriche e i terreni. Dopo aver seminato terrore durante il fascismo in Libia, Somalia ed Etiopia. Sono l’iprite, il fosgene, l’arsenico e il cianuro contenuti nelle armi chimiche prodotte dall’industria bellica italiana dagli anni ‘20 fino alla Seconda guerra mondiale. Un arsenale inquinante sulla cui esistenza, due anni fa, ha rotto il silenzio Gianluca Di Feo con il libro Veleni di Stato. Il giornalista ha portato alla luce quanto contenuto negli archivi militari inglesi, tedeschi e americani: lungo le coste italiane, durante e dopo la guerra, sono state affondate tonnellate di armi a caricamento chimico. Per non parlare dell’eredità tossica dei terreni intorno alle industrie e ai depositi bellici sparsi sulle Penisola: la Chemical city sul lago di Vico, l’ex Saronio di Melegnano, a pochi passi da Milano, e a Colleferro, per citarne alcuni. Una battaglia per la sicurezza ambientale, insomma, di cui si parla da poco. E che vale la pena di rilanciare.

IN CERCA DI VERITA’
«A Vico nel 1996 un ciclista fu investito da una nube tossica e ricoverato per problemi respiratori. Le autorità militari dissero che stavano bonificando un laboratorio di ricerca chimica della Seconda guerra mondiale – racconta Fabrizio Giometti, presidente di Legambiente Vico – Quindi sapevamo già della presenza di questi veleni, ma in altre parti d’Italia nessuno lo sospettava. Il libro di Di Feo ha dato impulso alla nascita del Coordinamento nazionale bonifica armi chimiche per informare i cittadini e chiedere alle istituzioni la bonifica dei siti inquinati da armi chimiche». Il caso è arrivato anche in Parlamento: a maggio i senatori Roberto Della Seta e Francesco Ferrante hanno rivolto un’interrogazione ai ministri della Difesa e dell’Ambiente per chiedere l’istituzione di una commissione straordinaria per completare le bonifiche con uno stanziamento speciale di uomini e fondi. «Per noi non è una novità trovare un ordigno durante la pesca o un’immersione – dice Paolo De Gennaro, sommozzatore e volontario di Legambiente a Molfetta, durante il nostro sopralluogo nelle acque pugliesi del 16 luglio (vedi il filmato online) – Un pescatore tirando l’ancora ha portato a galla non solo una bomba ma anche il carrello di una mina». Nelle acque della città pugliese le bombe sono arrivate dopo il secondo conflitto mondiale. Alcune provengono dalla bonifica del porto di Bari, dove il 2 dicembre 1943 i tedeschi bombardarono le navi degli Alleati. Nell’occasione fu colpita la nave inglese “John Harvey” con un carico di iprite, l’incidente provocò un migliaio di morti. In seguito gli ordigni rimasti nelle stive affondate furono rimossi da chiatte e pescherecci incaricati di buttarli al largo. Molte però furono smaltite sotto costa: i pescatori, pagati a cottimo, preferivano furbescamente fare meno tragitto e più viaggi. Nel 1999 uno studio dell’Icram ha rilevato nelle acque del basso Adriatico undici ordigni all’iprite corrosi e mutazioni genetiche nei pesci che vivono sui fondali. Le convenzioni internazionali vietano il dumping in mare di ordigni bellici, ma fino agli anni ‘70 la pratica era diffusa e si calcola che la quantità delle armi chimiche affondate nei fondali di tutto il mondo, soprattutto nel mar Baltico, nel mare del Nord, nel mar del Giappone e nell’oceano Atlantico, sia tre volte la quantità custodita negli arsenali di Stati Uniti ed ex Unione Sovietica messi insieme.

MINE FRA GLI SCOGLI
«Cè voluto un incidente di percorso per far partire la bonifica nelle acque di Molfetta: il ritrovamento degli ordigni durante i lavori di dragaggio per la realizzazione del porto commerciale – denuncia Matteo D’Ingeo, membro del Coordinamento nazionale bonifica armi chimiche – Purtroppo le modalità con cui le autorità cittadine stanno portando avanti questa vicenda non sono trasparenti. Ad esempio, secondo l’Arpa sui fondali a pochi metri dalla località Torre Gavetone ci sarebbero quattro coordinate da vietare alla balneazione per la presenza di mine cementificate. Due di queste ricadono nel limitrofo comune di Giovinazzo, che ha emesso l’ordinanza di divieto di balneazione, mentre il sindaco di Molfetta no. E la spiaggia è sempre piena. Sembra ci sia la volontà di nascondere le cose per non creare allarme. Per questo abbiamo presentato un esposto al prefetto di Bari e alla procura di Trani».
Intanto sulla darsena in costruzione campeggiano due grossi cassoni azzurri con una lettera “R”, che sta per “Rifiuti”. «Lì probabilmente sono stoccati provvisoriamente i prodotti della bonifica del porto – riprende D’Ingeo – ogni tanto i pescatori che passano vedono venir fuori del fumo bianco e sentono nell’aria un odore acre che dà fastidio alle mucose e crea problemi respiratori». A Pesaro intanto è cominciata a luglio la prima campagna d’analisi per individuare la presenza di arsenico nei punti in cui sarebbero state inabissate delle bombe, secondo quanto indica un documento degli anni ‘60 del governo Tambroni. Sul Tirreno la situazione è ancora più oscura. Gli arsenali di armi chimiche affondati fra il ‘45 e il ‘46 dagli americani andrebbero ricercati, secondo gli esperti dell’Istituto nautico di Forio (Ischia), in un triangolo che ha per vertici Bagnoli, Ischia e Capri, dove Goletta Verde è approdata le scorse settimane per chiedere analisi accurate. I rapporti militari degli americani Brankovitz e Aberdeen riferiscono che nel golfo di Napoli è avvenuto l’affondamento di bombe contenenti iprite, fosgene, arsenico, lewisite, cloruro di cianuro e cianuro idrato. Dalle acque di mare a quelle dei laghi i veleni continuano a inquinare l’Italia. «Nel marzo 2010 ho analizzato i sedimenti del lago di Vico – racconta Giuseppe Nascetti, professore di Ecologia all’università della Tuscia – Nella parte più profonda c’è quasi un grammo di arsenico per kg, ma per dire che la contaminazione proviene dal centro chimico militare servono analisi come quella al carbonio 14. Inoltre dovremmo capire se l’arsenico resta nei sedimenti o va in circolo nell’acqua. Ma sono studi costosi e c’è bisogno di un finanziamento». Il ministro della Difesa La Russa, rispondendo a un’interrogazione del deputato Pd Ermete Realacci sull’emergenza a Vico, esclude la «correlazione tra l’inquinamento del sito militare e quello del lago, in quanto il superamento del valore soglia per l’arsenico di poche parti per milione presso il sito militare non può giustificare l’alta concentrazione rinvenuta nel sedimento del lago». E rassicura che lo stato ambientale del bacino è «all’attenzione del governo e degli enti locali», tanto che già nel ‘94 era stata condotta un’indagine di superficie. Ad oggi però la zona militare resta quasi incustodita, come denunciano le foto pubblicate sul sito del Coordinamento nazionale bonifiche armi chimiche (www.velenidistato.it).

SMINAMENTO LENTO
Ma esiste un programma nazionale per le bonifiche da armi chimiche? A tale richiesta il ministero risponde inviandoci uno stralcio del Libro Bianco del 2002. Non è molto ma nel documento si legge che erano in campo, a quella data, servizi e convenzioni per la bonifica di ordigni esplosivi dal territorio nazionale e internazionale, la bonifica da agenti chimici a cura dello Stabilimento militare dei materiali di difesa Nbc (nucleari, batteriologici e chimici) e la citata analisi dell’Icram nel basso Adriatico. Per queste operazioni, si legge, il ministero si avvale di ditte civili specializzate che operano col supporto delle forze armate. Ultimamente però queste imprese lavorano a rilento a causa della crisi che blocca i cantieri civili. La maggior parte delle bonifiche, infatti, si realizza durante la costruzione di opere pubbliche. Inoltre è stato cancellato il quadro normativo in cui operano: «Nell’ambito di una riorganizzazione normativa del 2010, il ministero ha abrogato con un sistema molto dubbio leggi e decreti dal 1940 al 1948 – lamenta Vincenzo Bellei, presidente di Assobon, associazione che riunisce 50 ditte specializzate – Fra queste c’era la 320 del ‘46 che regolamentava le bonifiche belliche. Nessuno si è reso conto di questo errore. A seguito del nostro reclamo è stato emanato un regolamento che riesume la 320. Quadro normativo a parte, per il lago di Vico ci sono i progetti delle bonifiche ma non i soldi per farle partire». Così i veleni della seconda guerra mondiale continuano a inquinare terre e mare. E a questi si aggiungono quelli dei conflitti dei giorni nostri. «Durante la guerra in Kosovo – ricorda Massimiliano Piscitelli del comitato scientifico di Legambiente Puglia – gli aerei Nato sganciavano il carico inesploso in mare. Ma nonostante la Marina militare abbia perimetrato queste aree, le bonifiche non sono mai partite. Oggi c’è la guerra in Libia: dove vengono sganciate le bombe dei caccia che rientrano a Trapani e Gioia del Colle? Saranno oggetto di bonifica?». Un interrogativo che resta sul terreno, insieme ai veleni.

SOSTANZE KILLER
Arsenico. Tossico e cancerogeno: anche in piccole quantità causa l’irritazione dello stomaco, intestino o dei polmoni, fino ad essere letale.
Iprite. Liquido vescicante (in fase solida sui fondali), irritante per organi visivi, vie respiratorie (fino alla congestione) e pelle.
Lewsite. Liquido vescicante: penetra facilmente causando danni alla cute, alle vie respiratorie e agli occhi.
Fosgene e Difosgene. Gas asfissianti che hanno effetto immediato fino al soffocamento.
Acido clorosolfonico. Liquido ustionante: è esplosivo a contatto con l’acqua.
Cloropicirina. Liquido oleoso soffocante: causa soffocamento e irritazione per gli organi visivi.

Pubblicato su La Nuova Ecologia di settembre 2011

Veleni nel porto di Molfetta

Sopralluogo nel bacino di Molfetta (Ba), dove è in corso una bonifica da residuati bellici della Seconda guerra mondiale, insieme a Legambiente Molfetta e a Matteo D'Ingeo del Coordinamento nazionale bonifica armi chimiche (www.velenidistato.it)

Misteri di guerra


di Gianluca Di Feo *

Solo in Italia poteva accadere. Abbiamo custodito per quasi settant’anni la più grande discarica di armi chimiche d’Europa e forse del mondo. Abbiamo permesso che questi ordigni mostruosi si disperdessero nell’ambiente: negli angoli più belli dei nostri mari, dei nostri laghi, delle nostre periferie e persino nel cuore delle nostre città. Lì il segreto di Stato figlio della guerra fredda, e soprattutto l’ignavia di una classe politica incapace di tutelare i cittadini, hanno lasciato che si seppellisse l’eredità della follia bellica più incredibile: migliaia di tonnellate di gas velenosi – testate all’iprite, all’arsenico o a base di altre sostanze micidiali – progettati per mantenere intatta la loro letalità nei decenni. Un incubo fortissimamente voluto dal regime fascista che riempì l’Italia di laboratori e fabbriche per creare il più grande arsenale chimico del mondo. Impianti spesso cancellati anche dalla memoria – come quello di Foggia o di Pavullo (Modena) – o trasformati in altre fucine di malattie – come a Massa, Melegnano o Pieve Vergonte – senza mai ripulire i resti dell’attività militare. Durante il conflitto quelle bombe non vennero mai usate per il terrore di innescare una appresaglia dalle conseguenze imprevedibili. Per questo tra il 1943 e il 1948 i veleni prodotti in Italia e le scorte trasferite nella Penisola dagli altri eserciti finirono in mare o nel terreno: gli americani buttarono nei fondali di Tirreno e Adriatico centinaia di migliaia di bombe e proiettili con ogive chimiche. Non solo. Nel segreto assoluto le forze armate italiane hanno mantenuto fino agli anni Ottanta centri di ricerca e depositi di questi ordigni vietati da tutti gli accordi internazionali. 
 
Quando nel 2004 ho cominciato a ricostruire la vera storia delle armi chimiche in Italia sono rimasto sconvolto da quello che emergeva dai dossier top secret britannici, conservati nei National archives di Londra. E dopo la pubblicazione delle mie ricerche nel volume Veleni di Stato molte altre segnalazioni scioccanti si sono aggiunte: come i casi inspiegabili di tumore negli uffici dell’università La Sapienza, installati lì dove un tempo si testavano i gas bellici. In tutta Italia adesso una rete di associazioni vuole la verità: sapere che prezzo stanno pagando per la follia dei signori della guerra. È ora che tutti i segreti cadano. 

* autore del libro “Veleni di Stato”
Questo articolo è stato pubblicato su La Nuova Ecologia di settembre 2011

Arsenico alle porte di Milano

Intorno all’ex Saronio di Melegnano restano alte le concentrazioni dell’agente tossico

Lo storico Angelo Del Boca pubblica nel 2007 il libro I gas di Mussolini. Documenta così l’uso massiccio di gas bellici effettuato dall’esercito italiano in Eritrea e Somalia. Fra le numerose ditte produttrici citate da Del Boca figura la Saronio di Melegnano, a pochi passi da Milano. L’azienda fu aperta nel 1936 e fin da subito i suoi prodotti rifornivano l’esercito. Nel 1940 produceva già Fenilcloroarsina (Lewisite), difenilcloroarsina, cloroacetofenone, cloropicrina, difosgene, cloro liquido, acido formico. Nel 1943, per poco più di un anno, le produzioni belliche furono trasferite in un nuovo stabilimento nella frazione di Rozza, nel confinante comune di Cerro al Lambro. L’eredità lasciata dalle due ditte è pesante e fa sentire ancora oggi, a quarant’anni dalla loro chiusura, i suoi effetti. Una recente indagine dell’Asl Milano 2 ha dimostrato che la frequenza dei tumori alla vescica fra la popolazione di Melegnano è circa doppia rispetto a quella che si riscontra nei comuni vicini. La causa va ricercata nella massiccia presenza nella falda e in alcuni pozzi usati a scopo agricolo di amine aromatiche, materia prima per la produzione dei coloranti. Nella falda si trovano anche arsenico, derivato dalle produzioni di gas bellici, e in particolare la Lewisite. Questi dati sono disponibili solo per il terreno di Melegnano, nessuna analisi è stata compiuta su quelli di Cerro al Lambro, di proprietà dell’esercito e utilizzati a lungo come perimetro di esercitazioni militari.
(Edoardo Bai, responsabile scientifico Legambiente Lombardia)
Pubblicato su La Nuova Ecologia di settembre 2011

Salviamo i nostri fondali

Intervista a Ezio Amato, ex docente di oceanografia chimica all’Universita’ di Viterbo ed ex ricercatore dell’allora Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (Icram), oggi confluito nell’ISPRA.  Dal 1987 guida ricerche sulle “sorgenti d’inquinamento sommerse” quali relitti e residuati bellici affondati in mare


Per anni Ezio Amato, con l’Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (Icram), ha guidato gruppi di ricerca impegnati nello studio degli effetti che i veleni rilasciati da ordigni convenzionali e a “caricamento speciale” affondati in tutti i mari e oceani del pianeta hanno prodotto e producono sulla fauna che popola i fondali, in particolare nel basso Adriatico: «Le specie stanziali, quelle che vivono in stretta relazione con i sedimenti dove sono state affondate le bombe hanno subito danni genetici oltre che somatici». Oggi lavora all’Onu per il restauro dei danni ambientali occorsi in Kuwait con l’invasione irachena del 1991 ed è convinto che in Italia l’attenzione politica per gli ambienti marini e in particolare per i fondali sia del tutto insufficiente. «Lo dimostra il caso della superpetroliera Haven affondata nelle acque del ponente ligure el ‘91: il governo Berlusconi ha destinato ad altro i fondi stanziati nel 2000 per studiare come bonificare le migliaia di tonnellate di catrame, mutagene e teratogene, che così da venti anni giacciono in profondita».

Quando sono cominciati gli studi nell’Adriatico?
Siamo partiti con una ricerca finanziata dal ministero dell’Ambiente durante la guerra nell’ex Jugoslavia perché oltre 200 pescatori, tra il 1946 e il 1996, hanno dovuto far ricorso a cure ospedaliere dopo essere venuti in contatto accidentale con aggressivi chimici rilasciati da residuati bellici affondati. Abbiamo realizzato una mappa che ci ha permesso di individuare nel basso Adriatico alcune aree inquinate da ingenti quantità di ordigni: munizionamento chimico affondato dopo la Seconda guerra
mondiale, in parte o completamente corroso. L’iprite, uno dei più di venti aggressivi chimici individuati nelle bombe affondate, era ben riconoscibile adagiata sul fondale accanto a pesci e invertebrati. Abbiamo prelevato campioni di sedimento e condotto analisi anche su due specie ittiche stanziali, il grongo e lo scorfano di fondale.

Che cosa avete scoperto?
Molti tra gli esemplari di pesce esaminati presentavano lesioni cutanee, danni al fegato, alle branchie e genetici. L’iprite è un distruttore del Dna, non entra tal quale nella catena alimentare perché non è bioaccumulabile ma è molto persistente in ambiente marino e provoca effetti nocivi per contatto e attraverso la respirazione branchiale. Anche l’arsenico è tra gli aggressivi chimici presenti in queste armi e ne abbiamo trovato tracce significative nei sedimenti analizzati. Quanto al Mediterraneo, i dati reperiti ci hanno mostrato uno scenario inquietante visto che tutti i paesi rivieraschi hanno affondato migliaia di tonnellate di residuati bellici e materiale militare obsoleto.

Si fa abbastanza per bonificare l’Adriatico?
Per le aree portuali pugliesi il ministero dell’Ambiente ha stanziato pochi anni fa 5 milioni di euro ma si sta lavorando solo nel porto di Molfetta. Queste bonifiche sono molto costose, impegnative e pericolose. Bisogna stabilire delle priorità, e le aree portuali devono essere considerate tali. 

(Francesco Loiacono)
Intervista pubblicata su La Nuova Ecologia di settembre 2011

27 luglio 2011

Trekking tra i rifiuti in montagna

foto di Lucia Perrotta / collettivo Wsp
Una passeggiata sui Monti Lepini (Lt) rivela il problema dei rifiuti in montagna di FRANCESCO LOIACONO  - Inchiesta in pdf  
 



Carcasse, pneumatici e batterie d’auto, secchi di vernice, pezzi di computer, giocattoli. Perfino una scavatrice smontata e ricoperta da vegetazione. Non sono i rifiuti abbandonati in una qualsiasi discarica abusiva italiana ma ciò che abbiamo trovato domenica 12 giugno durante un’escursione sui Monti Lepini, nel Lazio, insieme a Simone Nuglio, un attivista di Legambiente con la passione per le vette, e al suo amico Angelo Pianelli. Forse non sarà così ovunque ma il problema dei rifiuti, come sa chi le frequenta, sulle montagne italiane c’è eccome: «Sul “Sentiero degli Dei” fra Bomerano e Positano, sulla costiera Amalfitana, c’è una zona piena di copertoni e rifiuti ingombranti – conferma Fabrizio Bernini, accompagnatore turistico di Federtrek – Oppure vicino Civita Castellana, a Viterbo, in un sentiero aperto lo scorso anno c’è già una discarica di copertoni».



RELITTI NEL BOSCO
Lo scenario che ci si presenta mentre avanziamo nei Lepini, come documenta il nostro video, d’altro canto è impietoso. E anche il racconto delle guide che ci accompagnano lungo questi sentieri non lascia dubbi: «Avevo dieci anni quando ho visto per la prima volta questa macchina abbandonata – dice Angelo, oggi  trentacinquenne, indicando una vettura rossa al cui interno crescono ormai erbacce e fiorellini di campagna – Sono passati vent’anni ed è ancora lì. Certo, è in una proprietà privata, ma il percolato che produce va nel terreno». Facciamo qualche tornante e c’imbattiamo in una scavatrice, anch’essa abbandonata con accanto una tanica di benzina. «Siamo al Tufaliccio, in una zona compresa tra Campo Levito e il Piglione, poco oltre i 500 metri di altitudine – riprende davanti allo scheletro della scavatrice – Questo obbrobrio è qui da più o meno cinque anni, quando è stata sequestrata perché stavano realizzando una strada pare senza autorizzazione. Quando ci sono tornato quest’inverno l’ho trovata letteralmente smontata: qualcuno ha portato via il motore. Per fortuna un camper che si è ribaltato durante un taglio del bosco ha avuto sorte migliore. Era finito in un fosso ma dopo qualche mese è stato rimosso».

Simone Nuglio (Legambiente) recupera una batteria


CANALONI INTASATI
Ci fermiamo un attimo ad ammirare il paesaggio: il centro abitato di Cori stretto tra due selle boscate. «Da questo punto si capisce perché nei boschi troviamo così tanti rifiuti – attaca Simone Nuglio – Uno degli elementi che determinano l’abbandono è la vicinanza, l’altro è l’accesso. Arrivare a questi sentieri che si perdono su per la montagna è relativamente facile, così c’è chi ci viene per abbandonare di tutto». Riprendiamo il percorso e arriviamo in località Terzo ponte, sul canalone in cui confluisce l’acqua nei giorni in cui piove di più. Qui, sul letto del canale troviamo parecchie buste di rifiuti e 4-5 metri sotto il sentiero anche una batteria d’auto esausta. «Questa è un’artetia principale del canalone che arriva fino al ponte romano della catena giù in paese – aggiunge Simone dopo aver recuperato la batteria calandosi nel dirupo con una corda – Tutti questi rifiuti con l’arrivo delle piogge saranno spinti sempre più a valle, potrebbero chiudere la luce del ponte determinando rischi da non sottovalutare».



MEZZI INSUFFICIENTI
Ci spostiamo ancora e arriviamo a un altro fosso del canalone che, quando arriva a Cori, passa sotto il ponte della Catena risalente al I secolo a.C., nei pressi di Porta Ninfina. «Tutto il costone di questo canale – riprende – è caratterizzato da cumuli e cumuli di rifiuti». C’è di tutto: un lavabo, mattoni e piastrelle, pezzi di maiolicature, fino a un’intera automobile, una Smart, fatta a pezzi. Sarà stata gettata qui forse perché è stata rubata. Ma quel che preoccupa di più è un’altra automobile a precipizio sul canalone, bloccata solo da un albero. Inevitabilmente finirà nel letto del torrente in cui troverà sfogo l’acqua quando pioverà più intensamente. Ci sono anche vetri, secchi e barattoli, una vera e propria discarica. La situazione, insomma, è critica. E poco riescono a risolvere al momento le domeniche ecologiche organizzate dal Comune di Cori, che ha un territorio molto vasto da controllare, con mezzi sicuramente insufficienti. «La comunità montana dei Monti Lepini ci dà una mano nella manutenzione del territorio – dice dal canto suo Enrico Bernardini, assessore all’Ambiente del Comune di Cori, che incontriamo dopo la nostra escursione – ma spesso i mezzi, in risorse economiche e uomini, non sono sufficienti per un territorio così vasto». Un discorso che si ascolta spesso, purtroppo, di questi tempi quando ci si confronta con gli amministratori. L’unica speranza così rimane l’apertura ormai prossima del centro di raccolta rifiuti ingombranti e l’aiuto della Guardia nazionale ambientale, da poco insediata in paese. «Quando un decreto del sindaco la doterà di poteri di polizia giudiziaria - aggiunge l’assessore - potrà controllare il territorio e sanzionare reati quali l’abbandono di rifiuti». Nel frattempo il panorama resta costellato da cumuli d’immondizia.

Pubblicato su La Nuova Ecologia, luglio-agosto 2011

Gallo: con gli sherpa ripuliamo il Baltoro

Intervista a Maurizio Gallo, una vita sull’Himalaya








Maurizio Gallo vive quasi 120 giorni all’anno sull’Himalaya, è guida alpina e da quando è stato fondato il comitato Evk2Cnr è il responsabile logistica delle attività in Pakistan e Nepal. Da anni guida le spedizioni per recuperare dal ghiacciaio del Baltoro i
rifiuti lasciati dagli alpinisti e dalle loro guide. 



Come si ripulisce un ghiacciaio sulle vette dell’Himalaya?
Facciamo delle campagne di sensibilizzazione, per queste pulizie sopra i 5.000 metri ci vuole la gente pakistana che segue le spedizioni. Perché l’idea è che se cambiamo la testa a chi in montagna ha più forza e voglia abbiamo dei buoni risultati. Il turista è già troppo stanco. Sono loro, in Nepal gli sherpa, che devono capire quanto sia importante tenere la montagna. L’acqua del Baltoro alimenta il bacino dell’Indo da cui bevono centinaia di milioni di persone, un motivo in più per tenerlo pulito.

Rifiuti raccolti durante una spedizione sul Baltoro

Da quando avete cominciato nel 2006 ad oggi, il ghiacciaio è tornato pulito?
Con le campagne si sensibilizzazione abbiamo avuto ottimi risultati: in due anni abbiamo raccolto 20 tonnellate di rifiuti. Adesso siamo quasi arrivati alle condizioni ottimali e raccogliamo i rifiuti prodotti ogni anno e potremo calcolare quanti ne produce ogni turista. Se pensiamo che con un alpinista si muovono 10 portatori…


Dall’Himalaya alle nostre montagne, cosa suggerisce a chi fa escursionismo da noi?Di non affidarsi mai alla raccolta dei rifiuti fatta dagli altri, anche quando c’è un bidone. In montagna ogni operazione ha un costo, meglio riportare con noi i nostri scarti.

(Francesco Loiacono)
Pubblicata su La Nuova Ecologia, luglio-agosto 2011

DECALOGO PER L’ESCURSIONISTA A IMPATTO ZERO

in collaborazione con Maurizio Gallo

1 Portare nello zaino un sacchetto per portare via i rifiuti, per mettere al suo interno i rifiuti sporchi che macchiano.

2 Anche se nei parchi e nei rifugi si trovano bidoni per i rifiuti, preferire l’autotrasporto a valle. Meglio trasportare di persona i propri scarti che con l’elicottero che ha costi ambientali enormi.

3 Usare la borraccia, i sacchetti idratanti e il thermos, anche se pesante, al posto delle bottiglie di plastica.

4 Riportare l’ambiente al suo stato naturale dopo le attività in tenda.

5 Fare preselezione degli alimenti nello zaino eliminando i contenitori inutili. Se portiamo succhi, eliminiamo prima di salire in montagna il cartone che racchiude i tre tetrapak. Un sacco di plastica può contenere tutto, senza portarci il packaging superfluo.

6 Portare a valle anche ciò che è biodegradabile come le bucce della frutta, per evitare il loro impatto visivo e perché non spariscono subito. Hanno poi addosso pesticidi che producono effetti negativi nella flora e nella fauna.

7 Seguire i sentieri tracciati e non percorrere il bosco al di fuori di quelli esistenti, evitando le scorciatoie.

8 Raccogliere nel sacchetto tutto ciò che si trova, anche se lasciato dagli altri.

9 È necessario che le associazioni di promozione turistica preparino contenitori alla fine e all’inizio delle zone di escursione.

10 Considerare i costi sociali della rimozione di ciò che si lascia in montagna. Anche per i rifugi è difficile lo smaltimento e costoso. È sbagliato pensare che alla pulizia ci pensano altri.