3 marzo 2014

L’Italia condanna gli ecoreati



Cava a Lazzaro di Motta San Giovanni (Rc)
Pene più severe e prescrizioni più lunghe per chi compie reati contro l’ambiente. Il Codice penale si aggiorna. Viaggio in Calabria, fra gli epicentri dell’ecocidio di Francesco Loiacono


Le pene per chi commette reati contro l’ambiente in Italia s’inaspriscono. Accendere roghi di rifiuti ad esempio, come prevede il decreto sulla “Terra dei fuochi” approvato nel dicembre scorso, comporta fra due e cinque anni di reclusione. Ma questo non è l’unico giro di vite nella legislazione italiana contro chi offende gli ecosistemi e la salute pubblica. Presto infatti nel Codice penale saranno inseriti anche i delitti d’inquinamento e disastro ambientale. Le pene previste sono rispettivamente la reclusione da uno a cinque anni (con multa fino a 100.000 euro) e da quattro a venti anni. Una riforma epocale, fortemente invocata da Legambiente, la cui discussione è iniziata durante le scorse settimane alla Camera sulla base del testo approvato a fine 2013 dalla commissione Giustizia di Montecitorio, unificando le proposte di legge avanzate da Ermete Realacci (Pd), Salvatore Micillo (M5S) e Serena Pellegrino (Sel). Nel testo s’introduce anche il ravvedimento operoso, con sconti di pena per chi s’impegnerà a bonificare i luoghi inquinati, la confisca obbligatoria dei profitti legati al reato ambientale e, soprattutto, il prolungamento dei termini di prescrizione. Inquirenti e forze dell’ordine potranno insomma contrastare meglio i circa 30mila ecoreati l’anno, uno ogni quattro ore, che si consumano lungo lo Stivale. L’attuale ordinamento, infatti, vista anche la lentezza dei processi, rischia di vanificare lo sforzo di punire i colpevoli. Come sta avvenendo in Calabria, fra le regioni più martoriate dallo smaltimento illecito, dove i processi per alcuni gravicasi d’inquinamento procedono a singhiozzo.

Gomorra calabra
La regione d’altro canto, secondo il Rapporto Ecomafia 2013 di Legambiente, è al primo posto per incidenza dei reati nel ciclo dei rifiuti in rapporto alla popolazione e seconda (dopo la Campania) in rapporto alla superficie. Vibo Valentia e Reggio Calabria primeggiano invece nella classifica delle province. D’altro canto centomila tonnellate di rifiuti pericolosi sono state occultate solamente in una cava d’argilla in località Lazzaro di Motta San Giovanni, a una ventina di chilometri da Reggio Calabria percorrendo la Statale 106. Qui, in un’area Sic a trecento metri dal mare e a ridosso di una zona abitata, con il consenso e la collaborazione dei proprietari della cava, sono stati interrati rifiuti provenienti dalla centrale Enel Federico II di Brindisi, dopo che questi venivano declassati a rifiuti non pericolosi con certificazioni di laboratori privati. Un affare da sei milioni di euro l’anno per il quale dieci persone sono state arrestate nel 2009. Migliaia di camion per un paio d’anni hanno viaggiato, carichi di rifiuti industriali, da Brindisi a Reggio Calabria. Un traffico scoperto dalla procura di Reggio Calabria in collaborazione con il Corpo forestale dello Stato con l’operazione Leucopetra, dal nome antico del promontorio di Capo dell’Armi, famoso per la pietra bianca reggina. «Agli uomini del nucleo investigativo di polizia ambientale e forestale (Nipaf, ndr) del comando provinciale del Corpo forestale dello stato di Reggio Calabria che hanno lavorato a questo caso, Legambiente ha voluto consegnare il PremioAmbiente e Legalità 2010 – ricorda Nuccio Barillà della segreteria nazionale dell’associazione – A loro va riconosciuto il merito di aver scoperto questo traffico che ha avvelenato la nostra terra». 
cava di Lazzaro a Motta San Giovanni (Rc)
Cava di Lazzaro
Motta San Giovanni (Rc)

Il processo che nasce da questa operazione si avvicina alla fine del primo grado di giudizio. «Per la prima volta risultano imputati funzionari e quadri dell’Enel di Brindisi – racconta Angelo Calzone, l’avvocato del Wwf, costituitasi parte civile insieme a Legambiente per mezzo dell’avvocato Rodolfo Ambrosio – Questi sono accusati di aver costituito un’associazione a delinquere e un’organizzazione finalizzata allo smaltimento di rifiuti pericolosi che venivano formalmente avviati al recupero ma sostanzialmente interrati nella cava». Per questo come per altri processi, però, potrebbe arrivare presto la prescrizione. «Non si può punire una discarica abusiva, anche di grandi dimensioni, con la pena dell’arresto e dell’ammenda e una prescrizione che è al massimo di quattro anni e mezzo – aggiunge Calzone – Per questo ben venga la riforma in corso: va nella direzione giusta». 

Disastro a processo
L’ingresso dei reati ambientali nel Codice penale consentirà di ottenere giustizia per i tanti casi di inquinamento industriale che al Sud non mancano. Perché anche la Calabria ha la "sua Eternit" e un processo per malattie e decessi di operai che hanno lavorato a contatto con sostanze pericolose. Solo che questo processo si celebra al Tribunale di Paola (Cs), lontano dai riflettori dei grandi media e a rilento. È quello che vede sul banco degli imputati i vertici dell’industria tessile Marlane di Praia a Mare, in provincia di Cosenza. Un’azienda fondata negli anni Cinquanta dal conte Rivetti, poi passata al Lanificio Maratea, poi all’Eni-Lanerossi nel 1969, quando furono abbattuti i muri che separavano i reparti di lavoro lasciando gli operai tra i fumi delle sostanze  chimiche usate per la coloritura. Nel 1987 il gruppo tessile Lanerossi venne ceduto alla Marzotto di Valdagno, che detiene ancora la proprietà dello stabilimento calabrese. Qui, secondo l’impianto accusatorio, alcuni degli imputati (12 dirigenti della Marzotto, ciascuno per il proprio ruolo) avrebbero omesso i controlli sullo smaltimento degli scarti di lavorazione in condizioni di sicurezza, determinando il riversamento, sull’area antistante l’azienda, di rifiuti speciali pericolosi come coloranti e fanghi. E anche l’interramento di bidoni e fusti contenenti residui di coloranti. Nel frattempo un centinaio di lavoratori si è ammalatodi tumore, alcuni sono già deceduti. Il 19 aprile 2011 si è svolta la prima udienza dibattimentale del processo: Legambiente, Wwf e Vas, più Medicina democratica,Slai Cobas, Regione Calabria e i Comuni di Praia e Tortora si sono costituiti parte civile. Oggi però, complice la lentezza dei tempi della giustizia e della complessità del processo, si teme che alcuni dei reati possano cadere in prescrizione. Le accuse mosse riguardano i reati di omicidio colposo, lesioni colpose,disastro e violazione dell’articolo 437 c.p. (rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro). «Considerando i tre gradi di giudizio c’è il rischio che alcuni reati si possano prescrivere – spiega l’avvocato Fabio Spinelli, che segue la causa per le parti civili – In effetti, però, i tempi di prescrizione dei reati per i quali si procede cambiano per ciascun capo d’imputazione. Ci sono reati
Marlane, un blitz di Legambiente
come l’omicidio colposo plurimo per il quale è previsto un termine molto ampio. Il reato di lesioni personali colpose si prescrive invece al massimo in sette anni e mezzo. Quello di disastro in 5 anni nel caso di disastro ancora in corso e in 12 per uno che si è concluso» conclude Spinelli. Insomma, la lentezza del processo fa temere il peggio. Intanto l’area non è stata ancora bonificata e i veleni giacciono nel terreno.

Giustizia a rilento
Quello alla Marlane non è l’unico processo di cui si teme l’estinzione in Calabria. Poche settimane fa è stato aperto il terzo troncone (i primi due sono stati archiviati) del processo all’ex Pertusola: i materiali di scarto provenienti dallo stabilimento metallurgico crotonese sono finiti all’interno di discariche abusive. Inoltre i rifiuti sarebbero stati utilizzati come materiale edile per costruire scuole, palazzine, strade, le banchine del porto e la questura. Nei Tribunali di Paola, Castrovillari, Lamezia e Catanzaro ci sono procedimenti sul sottodimensionamento o la mancata manutenzione dei depuratori. A Vibo Valentia è in corso il procedimento relativo all’operazione Pet Coke, con la quale il Noe ha scoperto l’arrivo nel porto calabrese di motonavi battenti bandiera panamense e greca cariche di pet-coke proveniente dal Venezuela e dagli Usa e stoccato in un deposito a Cuccuruta di Porto Salvo, pronto per essere utilizzato come combustibile nei cementifici della zona. «Questi e altri procedimenti per reati ambientali purtroppo rischiano la prescrizione – dice Rodolfo Ambrosio, legale di parte civile di Legambiente in Calabria – E la macchinosità della giustizia italiana non aiuta: la procura di Lamezia, per esempio, ha aperto una grossa inchiesta per smaltimento di rifiuti che coinvolge 98 persone. Basta che ci sia un problema in una sola notifica a comparire e bisogna rifarle tutte da capo. Intanto il tempo passa. Insomma, i reati ambientali non dovrebbero andare mai in prescrizione: il disastro ambientale è permanente, che senso ha prescriverlo?». 

(Pubblicato su La Nuova Ecologia di febbraio 2014)

Piccirillo: «Per l’ambiente tutela assoluta»

Parla il gip Raffaele Piccirillo, che ha lavorato al disegno di legge

Intervista di Francesco Loiacono



 




Un cambiamento epocale». Così Raffaele Piccirillo, il gip che per il
ministero dell’Ambiente ha presieduto una commissione propedeutica all’iter parlamentare commenta l’ingresso dei reati ambientali nel Codice penale.

Perché è così importante questo provvedimento?
Perché l’ambiente merita una tutela come quella che si riserva alla vita, assoluta e
contro qualsiasi forma di aggressione, e questo viene riconosciuto per la prima volta.
La proposta in via d’approvazione dice che un danno a una foresta, per fare un esempio, è di per sé un delitto: il danno ambientale. Il disastro ambientale si configura poi anche a prescindere dal pericolo per la pubblica incolumità, quando il danneggiamento dell’ecosistema presenta una rilevante gravità oggettiva. Non è necessario che vi sia pericolo concreto per la pubblica incolumità o per la vita. In questo consiste il principale salto di qualità rispetto alla prassi attuale nella quale, dovendo applicare un delitto contro la pubblica incolumità, il cosiddetto disastro innominato di cui all’articolo 434 del codice penale, non può configurarsi disastro per la mera aggressione, pur grave e irreparabile, all’ecosistema.

Quali sono le altre novità?
La pena per disastro ambientale può arrivare a venti anni, otto per il danno ambientale. E nessuno potrà sottrarsi alla pena senza aver provveduto al ripristino con la bonifica, neanche in caso di sospensione della pena. Per logica riparativa, poi, il soggetto che collabora nello scoprire complici o risorse utilizzate per reiterare il reato o che spontaneamente effettua una bonifica gode di attenuanti. Sono previste aggravanti per i reati associativi e per chi incrementa o reinveste i profitti illeciti nella green economy o nella gestione dei rifiuti. Infine gli inquirenti potranno effettuare intercettazioni non solo nei casi di traffico illecito, i tempi di prescrizione si allungano e s’introduce lo strumento della confisca per equivalente: il profitto di un reato si può confiscare anche quando non lo si trova sequestrando l’equivalente nel patrimonio di chi lo ha commesso.

Le pene aumentano se l’associazione include pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi in materia ambientale.
Sì, perché chi può contare stabilmente su una collaborazione con qualcuno preposto
ai controlli o al rilascio delle autorizzazioni può portare avanti il proprio disegno illecito “con tranquillità”. Inoltre per associazione mafiosa l’aggravante sussiste anche quando è finalizzata a infiltrarsi nei settori della raccolta dei rifiuti o delle bonifiche.

Manca qualcosa nel testo in approvazione?
Un avverbio, “abusivamente”, che c’era nel testo preparato per la commissione. Le
condotte dei due delitti principali dovrebbero essere così costruite: "chiunque abusivamente cagiona o contribuisce a cagionare un danno ambientale/disastro ambientale è punito...". Così i due delitti si possono applicare anche quando la compromissione dell’ecosistema si realizzi con condotte diverse dalle immissioni. Per esempio attraverso costruzioni abusive o scavi propedeutici, o ancora con la
coltivazione irregolare di una cava. Inoltre manca un’ipotesi di agevolazione colposa per chi consente che sul proprio suolo o impianto altri realizzino un disastro ambientale. Nonostante questo credo che il testo segni una svolta epocale nel contrasto ai reati ambientali.


(Pubblicata su La Nuova Ecologia di febbraio 2014)