27 novembre 2010

Anche in Kossovo è crisi, verso le elezioni

Pristina, capitale del Kossovo


La crisi politica aperta in Kosovo dalle dimissioni del presidente Sejdiu sfocia in elezioni anticipate. Ad accelerare sulla data del voto (12 dicembre) soprattutto il premier uscente Thaci, che vuole prendere in contropiede gli avversari per assicurarsi così un nuovo mandato - La crisi raccontata da Osservatorio Balcani   - 17 febbraio 2008, la proclamazione di indipendenza (Speciale su Osservatorio Balcani)

LEGGI: UN PONTE PER MITROVICA di Francesco Loiacono. Reportage del 2003 / Un circo di pace

Un ponte per Mitrovica, reportage del 2003

Check point sul ponte del fiume Ibar
di Francesco Loiacono

Il ponte sul fiume Ibar unisce la parte nord, a maggioranza serba, da quella sud a maggioranza albanese. Mitrovica è il simbolo delle divisioni kossovare (agosto 2003) - Un circo per la pace



A nord i serbi, a sud gli albanesi, in mezzo il ponte: un braccio di cemento che non avvicina ma allontana genti diverse ed accresce le diffidenze di una guerra. A Mitrovica il ponte sul fiume Ibar è il simbolo della divisione interetnica del Kossovo. Dopo l’attacco della Nato nel 1999 alla Serbia di Milosevic, colpevole di massacri e sfollamenti contro gli albanesi kosovari, le divisioni fra le etnie sono ancora più marcate. Nexmedin Spahiu, direttore del canale televisivo di Mitrovica, ricorda: «prima della guerra i quartieri erano a presenza mista: serbi, albanesi, rom e bosniaci vivevano fianco a fianco, di qua e di là del ponte». E aggiunge: «durante il conflitto i serbi incendiavano e distruggevano le case degli albanesi. Questi, dopo la guerra, non hanno reso lo stesso servizio ai serbi ma astutamente ne hanno occupato le case,  fatto di Mitrovica sud una città albanese e lasciato ai serbi solo una parte a nord del fiume».

E così, venendo da sud la sensazione è di essere in Albania, in un paese mediterraneo. Grande fermento al mercato sovrastato dall’alto e sottile minareto della moschea. Il muezzin quasi non si sente, coperto dal traffico delle automobili, dal frastuono di cantieri che costruiscono una nuova città e dal rumore dei generatori elettrici: la corrente se ne va spesso e all’improvviso, come l’acqua. Le attività sono vive, tutti disponibili ad aiutarti. Urrdho è l’espressione con cui ti rispondono gli abitanti a Mitrovica sud: “mi dica”, oppure più cordialmente “a disposizione”.

A sud ci sono gli uffici dell’Unmik, la missione Onu per il Kossovo, e tutte le sedi delle Ong internazionali. I militari, diecimila su poco più di centomila abitanti, sono ovunque: ricordano che c’è stata la guerra e che la vita è sospesa in attesa del futuro. Le camionette verdi e i blindati si incrociano per le strade come le mosche nei ristoranti: sul fianco portano la scritta KFOR, la forza multinazionale di stanza in Kossovo, a bordo ragazzi che vengono dalla Francia o dal Marocco. Anche i furgoni della polizia o i fuoristrada bianchi con la scritta NU si mescolano al traffico e a volte passa una camionetta dei carabinieri italiani, non sono molti, il nostro contingente si trova a Pec, anzi Peja. A sud del ponte è meglio chiamare cose e città in albanese. I militari e gli internazionali delle ong formano una comunità di privilegiati. Spendono le loro paghe nei ristoranti e nei locali, affittano gli appartamenti migliori e drogano l’economia. Si paga tutto in euro: i prezzi sono economici per gli internazionali, non per la gente del posto.

Monumento ai minatori
Quando gli uomini in divisa e le magliette colorate con varie sigle sul petto andranno via, vorrà dire che il Kossovo potrà camminare da solo per la sua strada, ma con quali soldi? Su che si reggerebbe la sua economia ormai viziata? Poco importa, tanto camionette verdi e fuoristrada bianchi rimarranno a lungo. E l’indipendenza non pare possibile. Il direttore Spahiu confida la sua speranza: «l’unico futuro sta nell’ingresso nell’Unione Europea di tutti gli stati balcanici, compresa la Serbia. Solo un tale passo potrà illuminare l’avvenire del Kossovo e portare stabilità nella regione, ma è difficile – conclude Spahiu – che i Balcani siano pronti per un ulteriore allargamento ad est dell’Unione ipotizzabile per il 2010-2012». Gli uomini passano le ore al bar. Vehebj è il proprietario di uno dei tanti di Mitrovica sud, presenta il figlio che si chiama Du Lot, in albanese vuol dire “due lacrime”. «Ha tre anni, è nato dopo la guerra. Perché due lacrime? Una è per i bambini morti durante il tempo della violenza ed una perché non può andare dall’altra parte del fiume a vedere cosa c’è».
Per arrivare al nord bisogna raggiungere il ponte attraversando la confidence zone, l’area in cui l’accesso è libero e sicuro per tutti ma che in realtà è un deserto pieno di militari e furgoni delle Nazioni Unite.All’imbocco del ponte il check point. Gli internazionali passano senza problemi. I locali che vogliono andare al di là sono pochi, i più non ci provano neanche. Per loro è un muro fatto di paura e diffidenza. Dopo che i francesi hanno riparato i danni della guerra alla struttura, i paramilitari albanesi e serbi hanno cominciato a sorvegliarlo. Sono i bridgewatchers: presenza segreta, impalpabile ma ancora oggi invadente. Conoscono gli spostamenti e la vita di chi passa il ponte, prendono le targhe delle macchine che vanno dall’altra parte. I taxisti per lavorare tranquilli le hanno tolte tutte, altri le levano quando passano.


Dopo il ponte la Serbia. A nord tutto è diverso. Le scritte cambiano e i palazzi pure. Sulla collina sopra la città il grande monumento ai minatori, nella zona ci sono zinco e piombo: al di là di Mitrovica c’è la Trepca, l’impianto minerario-metallurgico rimasto in disuso, bloccato dalle dispute sul futuro della regione. La parte serba si sviluppa lungo un viale in salita. E’ la strada che in sette ore porta a Belgrado, il polo d’attrazione dei pensieri giovanili, della vita spalle al ponte. Anche per pregare si va a nord: l’unica chiesa ortodossa di Mitrovica è rimasta a sud, nella parte albanese, quindi meglio andare a Svecan, più vicino al confine con la Serbia. Anche perché la vita dei serbi in città è quella di una minoranza. Si usa il dinaro e di notte alcuni ragazzi corrono con le macchine verso il check point: mostrano i muscoli e l’orgoglio di chi vive sulla difensiva, arroccato al proprio bastione.
Palazzo nella zona nord

Questa piccola isola serba in Kossovo è un cuneo che parte da Belgrado e si spinge fino al ponte, fino all’estremità nord del Kossovo albanese, alle centinaia di bandiere rosse con l’aquila nera. Un tempo a ridosso del fiume, a ovest del ponte, vivevano anche le famiglie rom nel bel quartiere di Roma Mahala. Ora se lo guardi dall’alto vedi solo macerie: gli albanesi l’hanno distrutto. Accusati di collaborazionismo con i serbi, adesso i rom vivono nei campi intorno a Mitrovica: piccole isole intorno alla città delle enclaves. Infatti nel nord a maggioranza serba ci sono anche i quartieri albanesi e bosniaci di Kodra Minatore e Bosnia Mahala (Piccola Bosnia). Oliver Ivanovic, rappresentante politico della comunità serba di Mitrovica e membro del parlamento kossovaro, mostra la mappa appesa nel suo ufficio e spiega: «Mitrovica nord, con la presenza di serbi, albanesi e bosniaci, è rimasta l’unica area realmente multientnica del Kossovo dopo la guerra. Per questo - incalza - la comunità internazionale dovrebbe inviare messaggi più forti agli albanesi per convincerli a considerare i serbi interlocutori importanti con cui costruire il futuro della regione. In questa direzione – conclude Ivanovic - leggo gli sforzi di Belgrado per uscire dal suo isolamento internazionale».

Intanto, chi vive in quest’area si trova nella condizione peggiore. Gli albanesi di Kodra Minatore, per andare a lavorare a sud, devono attraversare la parte serba sugli autobus scortati dai militari. Kodra è l’enclave albanese sulla collina sotto al monumento ai  minatori. Se da qui scendi verso l’area serba, i bambini ti seguono fino alla strada principale senza raggiungerla, fino alla “Serbia”. Se ti allontani si fermano, restano immobili. Intorno strade dove non possono giocare, al di là del ponte i bambini albanesi che non possono conoscere. La striscia di cemento sull’acqua è orizzontale ma la guardi come fosse un muro.

Un circo per la pace, agosto 2003

di Francesco Loiacono

A Mitrovica (Kossovo) un gruppo di volontari italiani mette in sciena uno spettacolo che sconfigge le paure della diversità


I bambini del circo sul ponte di Mitrovica
Trasporto eccezionale per le camionette della KFOR che il primo agosto hanno superato il chek point sul ponte di Mitrovica: una bandiera della pace, bambini serbi, albanesi, rom e bosniaci e tredici volontari italiani. Tutti insieme diretti al centro culturale della città per mettere in scena il “circo della pace”: l’obiettivo della prima missione della Campagna Volontari di Pace in Kossovo organizzata dall’Associazione per la Pace. Per la prima volta dopo la guerra del 1999, i bambini del quartiere di Kodra Minatore, zona a presenza mista nella parte serba della città, hanno attraversato il ponte e raggiunto la zona albanese a sud di Mitrovica.

Il circo della pace
I volontari italiani hanno insegnato ai bambini delle diverse etnie i numeri e i personaggi dello spettacolo, la cui storia esortava all’unione che sconfigge le paure della diversità. Le prove delle esibizioni sono state in realtà strumenti di teatroterapia che Luigi, volontario assopace, utilizza tutti i giorni all’Asl di Ascoli nelle sue attività con i bambini psicotici. E la scommessa della missione dei volontari era proprio coinvolgere bambini diversi su un impegno comune. «Strana arte è il teatro – dice Elisabetta, volontaria entusiasta dell’esperienza – quando sono arrivati, i bambini rom non sono stati subito accettati dagli altri ma poi l’allegria dei giochi ha vinto tutte le diffidenze. E’ successo nella realtà quello che racconta la storia del nostro circo». Infatti, nella finzione gli artisti litigano, si dividono in due gruppi e lasciano solo il direttore del circo. Alla fine, però, si riuniscono e riparte lo spettacolo.

Dopo la rappresentazione, Zeqit Rushiti, rappresentante della comunità albanese di Kodra Minatore, ringrazia i volontari e afferma: «E’ stato come ricevere dell’acqua per chi aveva tanta sete. Perché c’era tanto bisogno di allegria e unione per questi bambini che hanno sempre sentito parlare di guerra e vivono in famiglie con storie brutte alle spalle».  Concorda con Rushiti anche Feta Bakija, responsabile del Ministero Unmik della Cultura, giovani e sport che ha supportato le attività, ed esprime le sue congratulazioni ai responsabili dell’assopace per l’idea del circo: «un passo piccolo per le comunità di Mitrovica, ma molto importante per il loro futuro». Lo spettacolo è finito, il sipario è calato, ma a Mitrovica alcuni militari intonano ancora i canti dei bambini sulle camionette.
(Agosto 2003)

25 novembre 2010

Città vecchia di Taranto, come nasce un parco giochi (Parte I)



Invenzione, divertimento, abitanti, materiali riciclati, partecipazione, arte sociale, trasformazione urbana, esperienza. Sono ingredienti, ambizioni e scommesse dei promotori di Park Urka: LaBuat e Controprogetto, che hanno realizzato un parco giochi temporaneo nel cuore della Città vecchia di Taranto.
GUARDA LA SECONDA PARTE

 AI BAMBINI DI TARANTO SOLO "UNA FOGLIA" SU CUI GIOCARE

Città vecchia di Taranto, come nasce un parco giochi(Parte II)



Invenzione, divertimento, abitanti, materiali riciclati, partecipazione, arte sociale, trasformazione urbana, esperienza. Sono ingredienti, ambizioni e scommesse dei promotori di Park Urka: LaBuat e Controprogetto, che hanno realizzato un parco giochi temporaneo nel cuore della Città vecchia di Taranto.
GUARDA LA PRIMA PARTE

AI BAMBINI DI TARANTO SOLO UNA "FOGLIA" SU CUI GIOCARE

24 novembre 2010

Ilva, ci siamo rotti i polmoni!

Blitz di Legambiente con tute e mascherine antigas davanti all’impianto di Taranto, dove ieri l'azienda siderurgica ha presentato il Rapporto ambiente e sicurezza. (Foto di Francesco Loiacono)

















20 novembre 2010

Autostrade del mare. Che fine hanno fatto?

di Francesco Loiacono
Ciampi invocò l’utilizzo del Tirreno e dell’Adriatico, per l’Ue sono una “best practice”, perché decongestionano il traffico stradale e abbattono la CO2. Ma il governo manda in soffitta l’ecobonus. Che fine farà il trasporto delle merci via nave?
Po, un fiume di traffico



"Non costruiamo altre grandi autostrade, limitiamoci a completare quelle che ci sono e sviluppiamo le due grandi “autostrade del mare” che abbiamo: il Tirreno e l’Adriatico. È assurdo che i tir debbano percorrere le strade e le ferrovie della penisola per andare da nord a sud invece di sfruttare questa via naturale". Parole sante per gli ambientalisti e per i camionisti che percorrono chilometri e chilometri sul caotico asfalto italiano, quelle che nel 2002 Carlo Azeglio Ciampi pronunciò a Livorno. Da allora però è stato fatto ben poco per togliere i mezzi pesanti dalla strada, con indubbio vantaggio per l’economia, l’ambiente e la sicurezza stradale. Utilizzando le autostrade del mare un tir può imbarcarsi a Genova e sbarcare a Palermo: risparmia carburante, ore di guida al conducente, rischio incidenti ed emissioni di gas di scarico. 

UN BUON AFFARE
«Le autostrade del mare offrono diversi vantaggi, innanzitutto il fattore tempo – spiega Giuseppina Della Pepa, segretario generale di Anita, l’associazione di Confindustria che riunisce le imprese dell’autotrasporto – Date e orari certi di partenza e arrivo permettono all’azienda una migliore gestione delle attività. E poi, cosa non certo meno importante, si evita la congestione stradale, e tutto ciò che ostacola la puntualità delle consegne: incidenti, deviazioni, lavori in corso. Inoltre la modalità via mare consente un risparmio sul gasolio, sui costi di manutenzione del veicolo e il riposo dell’autista». Mica poco. E poi una nave Ro-Ro (dall’inglese Roll-on/Roll-off, fornite di rampe di carico in grado di caricare e scaricare veicoli completi) imbarca 2.000 container, il trasporto di 2.000 tir. Che messi in fila fanno chilometri di coda in autostrada. Come conseguenza della diminuzione del traffico pesante, le stime parlano di una possibile riduzione del 50% della strage di oltre 8.000 morti l’anno sulle strade italiane. Insomma, togliere camion e Tir dall’asfalto è un affare per tutti.

“NON AFFONDATELO”
Nel 2004, sullo slancio delle parole di Ciampi, è nata la Rete autostrade mediterranee spa, il braccio operativo del ministero delle Infrasttrutture e dei Trasporti per promuovere un programma nazionale delle autostrade del mare nel Mediterraneo. Nel 2007 poi, per dare linfa al programma, è stato varato l’ecobonus, un rimborso del 30% sul costo del biglietto per gli autotrasportatori che scelgono le rotte marine. «Se un operatore sceglie il mare per la tratta Civitavecchia-Barcellona e ha pagato 300 euro, gliene restituiamo 90 – spiega il presidente della Ram, Tommaso Affinita – Con questo strumento centinaia di migliaia di tir l’anno sono stati tolti dalle strade del versante tirrenico». Funzionano bene i collegamenti fra Catania, Palermo, Genova e la rotta internazionale Civitavecchia-Barcellona. L’ecobonus ha riscosso un tale successo che l’Unione Europea l’ha riconosciuto come best practice da estendere agli altri paesi europei. Ma dopo soli tre anni, e dopo aver erogato fondi per oltre 200 milioni di euro, l’ecobonus va in soffitta. Per il 2010 non è stato rifinanziato, non v’è ombra di fondi neanche nella manovra varata a luglio da Tremonti. Così chi continua a scegliere il mare per trasportare le merci anticipa i soldi del biglietto con la speranza di un rifinanziamento dell’ecobonus. «Il governo si è impegnato a rifinanziarlo per il triennio 2010-2012 nella Finanziaria 2011, e non abbiamo nessun motivo dicredere il contrario. In mancanza dell’incentivo stradale è evidente che tale modalità non risulta più competitiva – commenta Giuseppina Della Pepa – Noi ne auspichiamo il ripristino per promuovere un trasporto merci sostenibile ed efficente».

VOCAZIONE TRADITA
Gli italiani, popolo di santi, poeti e navigatori, abitanti della penisola protesa nel Mediterraneo, di fronte al Canale di Suez da dove passano le portacontainer provenienti dalla Cina e dalle altre tigri asiatiche, volgono dunque le spalle al mare? Secondo i dati del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sembrerebbe di sì: l’88% delle merci viaggia su strada. L’Italia sconta la mancanza di infrastrutture, come dice il World economic forum, che posiziona l’Italia all’83esimo posto della classifica sulla qualità delle infrastrutture. Nei primi dieci posti ci sono ben sette paesi europei. Fra i primi quindici porti del Vecchio continente per movimentazione container solo due sono italiani: Gioia Tauro (sesto) e Genova (quindicesimo), con un incremento dal 2003 pari rispettivamente al 12,6 e al 10%. Cifre irrisorie se paragonate al 192,7% dello scalo di Ambarli (Turchia), al 118,2 di Zeebrugge (Belgio) o al 51 di Rotterdam (Olanda). Con tali carenze, difficilmente l’Italia sarà mai ponte fra l’Ue, i paesi nordafricani e le economie asiatiche, i cui carichi risparmierebbero cinque giorni di viaggio se usufruissero degli approdi italiani invece di quelli del Northern Range, l’insieme dei porti del Nord Europa.

BUCHI NELL’ACQUA
I bacini di Genova, Trieste e Venezia sono in vantaggio su tutti gli scali del Nord in termini di tem pi, anche per portare le merci nel cuore dell’Europa. Un vantaggio pure per l’ambiente: il trasporto di un container da Porto Said (Canale di Suez) a Parigi, se passa da Venezia e riprende il viaggio in treno costa 135 kg di CO2 in meno che se transitasse da Amburgo. Oltre ad aver viaggiato, fra nave e treno, cinque giorni e 4.000 km in meno. Ma l’alto Adriatico ha i fondali bassi, e non attira le grandi navi tipo Panamax o Superpanamax. Per superare questo limite il Cosvipo, consorzio per lo sviluppo del Polesine, ha lanciato un progetto di terminal merci offshore da realizzare a Porto Levante, a una decina di km dal Delta del Po. Una piattaforma artificiale per far attraccare le navi, che romperebbero il carico su delle chiatte per poi farlo risalire dai canali del Polesine fino all’interporto di Rovigo. Da qui le merci, secondo i promotori del progetto, ripartirebbero sui treni o continuerebbero sui canali del Po fino alla Pianura padana. Un progetto al quale ribatte il presidente dell’Autorità portuale di Venezia proponendo un’altra piattaforma al largo della bocca di porto di Malamocco, e mettendo a sistema Marghera, con il recupero di alcune aree dismesse, Chioggia e Porto Levante. «Quando si propongono progetti di questo tipo, bisogna considerare l’aumento eccessivo del traffico nel delicato ecosistema della Laguna», è il giudizio di Luigi Lazzaro di Legambiente Venezia. Stesso discorso per Genova. Un container proveniente da Porto Said e diretto a Monaco di Baviera via Genova impiega circa 3 giorni in meno che passando dal porto tedesco di Amburgo, facendo risparmiare all’ambiente l’emissione di 70 kg di CO2. «Il problema di Genova – dice Stefano Sarti di Legambiente Liguria – è la bassa percentuale di merci che dalle navi riprende il viaggio sui binari, stiamo intorno al 10-15%. Si dice che con il Terzo valico le cose migliorerebbero, ma è un’opera che in ogni caso sarebbe pronta fra 15 anni… Noi proponiamo l’ammodernamento degli attuali valichi, potenziando in tre o quattro anni la rete esistente col minor impatto possibile. Le autostrade del mare vanno bene conclude – ma pensiamo sempre a come le merci devono riprendere il viaggio una volta a terra». Già, se ritornano sull’asfalto, resta solo un buco nell’acqua.

(Pubblicato su Nuova Ecologia - settembre 2010)

Po, un fiume di traffico

di Francesco Loiacono
Il trasporto sul Po non è mai decollato e per promuoverlo servirebbero strutture ad alto impatto. «Meglio il treno»


Pianura padana soffoca nel traffico stradale. Nella regione più ricca e produttiva d’Italia l’andirivieni di camion e tir sembra un male incurabile. Si parla spesso di “buttare nel fiume” le merci che viaggiano su gomma, ma rendere il bacino del Po una sorta di autostrada fluviale è un progetto carico di insidie. Ad oggi infatti il bacino del grande fiume è già utilizzato, anche se poco, nella sua parte veneta. «Il sistema attuale Fissero-Tartaro-Canalbianco e fiume Po, collegato con i porti di Venezia, Chioggia, Porto Levante e Porto Garibaldi funziona e in questi anni ha già trasportato milioni di tonnellate di merci», spiega Mario Borgatti, presidente dell’Unii, l’Unione navigazione interna italiana. Qui chiatte da 1.200 tonnellate lo percorrono cariche soprattutto di cereali destinati ai mangifici per allevamento. Le nuove chiatte da 2.000 tonnellate presto permetteranno il trasporto di carichi equivalenti a ben 70 tir. I problemi maggiori sono nel versante lombardo, dove i canali non sono del tutto navigabili e necessitano di interventi strutturali ad alto impatto. 

L’idea originaria di “bacinizzazione” risalente agli anni ’60 prevedeva un sistema di sbarramenti e chiuse che cambierebbero il corso del fiume trasformandolo in una successione di laghi. Oggi si parla di un sistema di quattro sbarramenti che produrrebbero energia idroelettrica. «L’unica finalità della bacinizzazione del Po – spiega il presidente di Legambiente Lombardia Damiano Di Simine – è spostare il terminal verso l’entroterra di quaranta chilometri, da Mantova a Cremona, neanche a Milano. Insomma, di fronte alla certezza di grossi impatti ambientali avremmo un beneficio assolutamente piccolo».

Quindi per togliere i Tir dalle autostrade padane poco o nulla può fare il Po, anche perché sulle chiatte viaggiano merci in competizione con quelle trasportate dai treni, non dai tir. «Un investimento reale sulle linee ferroviarie produrrebbe invece benefici rilevanti – scrivono in un dossier comune sul Po Legambiente e Wwf – sia per il trasporto passeggeri, che per quello merci che potrebbe fare affidamento su una linea dedicata ai convogli. Se dunque il trasporto sostenibile delle merci rappresentasse davvero (come dovrebbe) l’asse prioritario di programmazione infrastrutturale lombarda, l’investimento su questa direttrice ferroviaria – aggiungono Legambiente e Wwf – sarebbe senza dubbio un’opera di massima necessità e urgenza, di rilevanza incomparabilmente superiore a quella di un’infrastruttura idroviaria».

(Pubblicato su Nuova Ecologia, settembre 2010)

Per un barile in più

di Francesco Loiacono
In Italia le riserve di petrolio recuperabili sono 129 milioni di tonnellate, che ai consumi attuali finirebbero in 20 mesi. Ma il governo continua ad autorizzare le trivelle

In Italia l’incubo nero ha le sembianze delle piattaforme petrolifere che stanno spuntando ovunque, anche nelle vicinanze delle aree marine protette. E il prossimo mostro d’acciaio succhia petrolio potrebbe sorgere proprio di fronte alle isole Tremiti. Mentre la “Deepwater Horizon” della Bp affondava al largo delle coste della Louisiana, la Petroceltic Italia, controllata dell’irlandese Petroceltic Elsa, ha chiesto al nostro governo il permesso di cercare idrocarburi in uno specchio d’acqua nelle vicinanze delle isole poste fra Abruzzo e Puglia. Più in generale sono 41 i permessi di ricerca chiesti dalle compagnie petrolifere al ministero dello Sviluppo economico negli ultimi due anni. L’ultimo, concesso alla Shell nel golfo di Taranto, ha il sapore della beffa: è stato infatti rilasciato il 3 maggio scorso, il giorno precedente alle dimissioni del ministro Claudio Scajola.

AGLI SGOCCIOLI
«Non si capisce perché in Italia dobbiamo continuare a cercare petrolio, una fonte energetica in esaurimento nei prossimi decenni – afferma il responsabile scienti­fico di Legambiente, Stefano Cia­fani – Le riserve recuperabili tra terra e mare in Italia sono 129 milioni di tonnellate, una quan­tità irrisoria, che ai consumi at­tuali si esaurirebbe in 20 mesi. Vale la pena ipotecare il futuro del nostro mare e delle coste per così poco?». Fra il 2007 e il 2008 il consumo di petrolio nel Belpae­se si è ridotto di 3 milioni di Tep, cioè del 3,5% sul totale delle ma­terie prime energetiche. «In Italia i consumi sono in nettissimo calo già dal 2004 – spiega Ugo Bardi, presidente di Aspo-Italia, l’asso­ciazione che studia il picco del petrolio – Si tratta di sei anni di riduzione, approssimativamente costante e lineare, una riduzione di circa il 10% in questo periodo. Siamo in calo – aggiunge – anche nella produzione nazionale, per­ché rimangono piccoli pozzi poco convenienti da sfruttare. La quota di produzione nazionale è intorno al 7%, troppo poco. Consumiamo meno perché costa troppo impor­tare il restante 93% e il sistema comincia a riconvertirsi. Insom­ma, risparmiamo petrolio perché non possiamo permettercelo. Per noi di Aspo la ricetta giusta è fat­ta di energie rinnovabili, che sono già in crescita».

La Nuova Ecologia, giugno 2010
UNICA VIA
Le fonti energetiche del futuro van­no in controtendenza e negli stessi anni segnano un aumento di ben 2,7 milioni di Tep, un +19% sul to­tale delle materie prime energeti­che, che arriva al 45% se conside­riamo l’ultimo decennio. Eppure si continua a cercare petrolio e con i governi Berlusconi – dal 2001 al 2006 e dal 2008 a oggi – sono sedi­ci le attività autorizzate nei nostri mari per l’estrazione o la ricerca di petrolio, come denunciano in un’interrogazione parlamentare i senatori Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante. Altre ancora possono ricevere l’ok ora che la legge sviluppo dello scorso luglio ha reso più snelle le procedure. Ma visto che l’appetito vien man­giando, i produttori chiedono di più. Nel documento finale dell’ul­timo convegno di Assomineraria, tenutosi a marzo, gli industriali del greggio si sono lamentati del «costo della burocrazia causato dalla complessità legislativa, che non rendendo certi i tempi auto­rizzativi riduce il valore comples­sivo dei progetti».

BATTAGLIA ADRIATICA
D 30 B.C-.MD, D 26 B.C-.AG. Sono alcune coordinate della battaglia petrolifera in corso nel basso Adriatico. Spettatori inconsape­voli i trabucchi, le antiche mac­chine da pesca, tutelate dal Parco del Gargano. Dopo le Tremiti, le prossime vittime delle piattafor­me saranno loro. Con l’ultima istanza di permesso di ricerca per idrocarburi liquidi e gassosi in un’area di 728 km2 di fronte a Pineto e Vasto (Ch), presentata dalla Petroceltic Italia, diventano più di 6mila i km quadrati di ac­que abruzzesi nel mirino delle oil company. «La situazione è allar­mante e fuori controllo – avverte Angelo Di Matteo, presidente di Legambiente Abruzzo – A Eni ed Edison, che estraggono gas e olio nel mare abruzzese da quasi quarant’anni, si sono aggiunte nell’ultimo quinquennio compa­gnie internazionali, che vedono nell’Abruzzo il nuovo Texas».

IL TEXAS D’ITALIA
Sette mesi fa è stata istituita l’area marina protetta Torre del Cerrano e da anni si attende la nascita del parco nazionale della costa chietina. Eppure altre piat­taforme potrebbero aggiungersi alle nove già esistenti. Tutti impianti perfettamen­te visibili dalla costa, ai quali si oppone Emergenza ambiente Abruzzo, rete composta da 60 associazioni e comitati, fra cui la stessa Legambiente. «L’Abruzzo è considerata da Assomineraria uno dei territori più ricchi di pe­trolio in Italia sia a terra che a mare – conclude Di Matteo – La stessa associazione di categoria individua nella forte resistenza delle popolazioni locali il limite allo sviluppo dei nuovi giacimen­ti. Manca un indirizzo da parte delle istituzioni». Infatti sulle trivellazioni a mare gli enti loca­li possono ben poco, è lo Stato a decidere.

MEDITERRANEO A RISCHIO
Il 20% del traffico petrolifero marittimo mondiale viaggia nel Mediterraneo. E qui l’Italia è il paese con il più alto numero di raffinerie, 17, nelle quali vengono lavorati 2 milioni e 300mila barili di greggio al giorno. Dal 1985 a oggi nel Mediterraneo si sono ve­rificati 27 incidenti con lo sversa­mento di oltre 270mila tonnellate di greggio, il primato ancora una volta spetta al nostro paese con 162mila tonnellate. Ma non sono solo gli incidenti a minacciare le acque e i fondali: l’80% degli scarichi di idrocarburi è dovuto a operazioni di routine, come zavorramenti e lavaggio delle cisterne. Secondo il Rem­pec, il centro regionale marino di risposta all’emergenza inquina­mento per il Mediterraneo, l’in­quinamento dovuto a operazioni di questo tipo è tra le 100 e le 150mila tonnellate di idrocarbu­ri all’anno. Nuove piattaforme, nuovi rischi. E tutto per qualche barile in più.

(Pubblicato su Nuova Ecologia di giugno 2010)


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18 novembre 2010

Alluvione in Veneto, l’esperto: “frutto di politiche sbagliate”

L’alluvione in Veneto non è stata una catastrofe naturale ma frutto degli errori umani. “È solo il frutto inevitabile di quarant’anni di politiche sbagliate e di una sistematica incomunicabilità tra università e istituzioni territoriali, tra Dipartimento di ingegneria idraulica da un lato e Regione ed enti locali dall’altro”, ha spiegato l’ingegner Luigi D’Alpaos, docente di idrodinamica all’Università di Padova, ai consiglieri regionali della commissione Ambiente di palazzo Ferro-Fini.
La commissione ha voluto incontrare un esperto di idraulica e conoscitore dei fiumi veneti e della laguna, per meglio comprendere la portata dell’alluvione che ha sconvolto il Veneto l’1 e 2 novembre scorso, le sue cause e i possibili rimedi. D'Alpaos, che ha partecipato ai lavori della commissione De Marchi costituita dopo l’alluvione del 1966 per prevenire simili calamità, ha fatto sintesi dei tanti e ripetuti allarmi lanciati dal suo istituto sulla sicurezza idraulica del territorio veneto. “I problemi sono noti – ha spiegato il docente – a partire dall’insufficiente portata idraulica di tutti i grandi fiumi veneti, dalla precarietà della rete idrica minore dei canali e degli scoli e dall'urbanizzazione massiccia e incontrollata del territorio”.


SFOGLIA LO SPECIALE FOTOGRAFICA DELLA REGIONE VENETO – PDF

Taranto città meno verde d'Italia

Solo 0,2 mq di verde per bambino
 
Che fosse soffocata dai fumi dell’Ilva Taranto lo sapeva già. Ma oggi la Città dei Due Mari si scopre anche assediata dal cemento, che toglie spazio persino ai giochi dei bambini. Nel capolougo jonico ogni fanciullo può giocare su una foglia di insalata. Come chiamare altrimenti lo 0,2 metri quadrati di superficie verde a disposizione di ogni bambino di Taranto? Il dato emerge dall’Atlante dell’infanzia in Italia presentato oggi da Save the Children.

Per la giornata dell’infanzia Save the Children ha presentato anche il sito interattivo www.atlanteminori.it

Dissesto idrogeologico a Reggio Calabria. L'intervista su Ecoradio

Tutti i Comuni della Calabria sono considerati a rischio per frane e alluvioni, anche per effetto della progressiva cementificazione del territorio che ha sottratto terreni fertili all'agricoltura.

E' l'allarme lanciato dopo le frane e gli allagamenti provocate dal maltempo che hanno costretto anche all'evacuazione nella provincia di Cosenza. A questo tema il mensile La Nuova Ecologia ha dedicato un'inchiesta di Francesco Loiacono, intervistato da Sabrina Pisu.

ASCOLTA L'INTERVISTA

17 novembre 2010

Il lungomare più bello e allagato d'Italia

L'intubata (Foto di M.Costantino)
di Francesco Loiacono


14 ottobre 2010 - Il lungomare più bello d'Italia è in trincea e conduce la sua battaglia contro l'acqua piovana. A Reggio Calabria, incredibile a dirsi, sacchi di sabbia proteggono i binari ferroviari che conducono alla stazione. Ma ieri hanno perso la battaglia contro la pioggia, 146 millimetri di acqua piovana che il sistema di idraulico e fognario di Reggio non ha retto.

Il 3 settembre scorso, quando erano caduti sulla città 131 millimetri di acqua, la sede ferroviaria che esce dall'"intubata", il tunnel che corre sotto il lungomare, è stata invasa d'acqua e i collegamenti ferroviari sono stati interrotti per quattro giorni. A emergenza conclusa le Ferrovie hanno posto dei sacchi di sabbia a protezione dei binari, ma ieri questo sistema di protezione ha dato prova della sua fragilità. L'acqua ha invaso la sede ferroviaria e la circolazione è stata nuovamente interrotta, questa volta per dodici ore. E l'inverno, con le sue piogge, deve ancora arrivare.
«Negli ultimi anni su Reggio Calabria sta cadendo una quantità di pioggia superiore alla media, ma la città non è assolutamente preparata. E ieri ne abbiamo avuto una prova», racconta Peppe Caridi di Meteoweb.it che da anni segue i fenomeni meterologici.Oggi su Reggio splende il sole, e i treni circolano regolarmente vicino alla trincea ormai sfondata dall'acqua.
(pubblicato su www.lanuovaecologia.it)
La ferrovia protetta con inutili sacchi di sabbia - VIDEO 
Reggio Calabria, una giornata di ordinaria alluvione - LEGGI

Italia in piena. Non è colpa della pioggia

di Francesco Loiacono

Acqua che zampilla dai tombini, acqua che fuoriesce dall’asfalto e dai marciapiedi ormai in frantumi, acqua che fa scoppiare la rete idrica e fognaria trasformando le strade in violente cascate marroni. Circolazione interrotta, treni sospesi, servizi in tilt con il lungomare più bello d’Italia che diventa una piscina. E tanto fango. Questa è Reggio Calabria ogni volta che piove con un minimo d’insistenza. Per capire perché l’Italia è afflitta da continue, e purtroppo sempre più spesso tragiche, alluvioni bisogna scendere lungo lo Stivale e andare nella città dello Stretto, vero caso studio di un paese in piena. La Nuova Ecologia l’ha fatto, il 13 ottobre scorso, vivendo un giorno di ordinaria alluvione. Già, perché non è un caso se l’acqua esonda da tutte le parti. L’equilibrio idrogeologico del territorio è stato rotto, violentato. La natura piegata a degradato scenario di squallide operazioni urbanistiche, spesso abusive. Con il risultato che quando piove l’acqua non trova più i suoi canali naturali ma scivola su cemento e asfalto, o addirittura sotto di essi, prendendo velocità e spazzando ogni cosa incontri.

Leggi il testo completo dell'inchiesta su Nuova Ecologia di novembre 2010
VIDEO: la fiumara sull'autostrada