20 novembre 2010

Per un barile in più

di Francesco Loiacono
In Italia le riserve di petrolio recuperabili sono 129 milioni di tonnellate, che ai consumi attuali finirebbero in 20 mesi. Ma il governo continua ad autorizzare le trivelle

In Italia l’incubo nero ha le sembianze delle piattaforme petrolifere che stanno spuntando ovunque, anche nelle vicinanze delle aree marine protette. E il prossimo mostro d’acciaio succhia petrolio potrebbe sorgere proprio di fronte alle isole Tremiti. Mentre la “Deepwater Horizon” della Bp affondava al largo delle coste della Louisiana, la Petroceltic Italia, controllata dell’irlandese Petroceltic Elsa, ha chiesto al nostro governo il permesso di cercare idrocarburi in uno specchio d’acqua nelle vicinanze delle isole poste fra Abruzzo e Puglia. Più in generale sono 41 i permessi di ricerca chiesti dalle compagnie petrolifere al ministero dello Sviluppo economico negli ultimi due anni. L’ultimo, concesso alla Shell nel golfo di Taranto, ha il sapore della beffa: è stato infatti rilasciato il 3 maggio scorso, il giorno precedente alle dimissioni del ministro Claudio Scajola.

AGLI SGOCCIOLI
«Non si capisce perché in Italia dobbiamo continuare a cercare petrolio, una fonte energetica in esaurimento nei prossimi decenni – afferma il responsabile scienti­fico di Legambiente, Stefano Cia­fani – Le riserve recuperabili tra terra e mare in Italia sono 129 milioni di tonnellate, una quan­tità irrisoria, che ai consumi at­tuali si esaurirebbe in 20 mesi. Vale la pena ipotecare il futuro del nostro mare e delle coste per così poco?». Fra il 2007 e il 2008 il consumo di petrolio nel Belpae­se si è ridotto di 3 milioni di Tep, cioè del 3,5% sul totale delle ma­terie prime energetiche. «In Italia i consumi sono in nettissimo calo già dal 2004 – spiega Ugo Bardi, presidente di Aspo-Italia, l’asso­ciazione che studia il picco del petrolio – Si tratta di sei anni di riduzione, approssimativamente costante e lineare, una riduzione di circa il 10% in questo periodo. Siamo in calo – aggiunge – anche nella produzione nazionale, per­ché rimangono piccoli pozzi poco convenienti da sfruttare. La quota di produzione nazionale è intorno al 7%, troppo poco. Consumiamo meno perché costa troppo impor­tare il restante 93% e il sistema comincia a riconvertirsi. Insom­ma, risparmiamo petrolio perché non possiamo permettercelo. Per noi di Aspo la ricetta giusta è fat­ta di energie rinnovabili, che sono già in crescita».

La Nuova Ecologia, giugno 2010
UNICA VIA
Le fonti energetiche del futuro van­no in controtendenza e negli stessi anni segnano un aumento di ben 2,7 milioni di Tep, un +19% sul to­tale delle materie prime energeti­che, che arriva al 45% se conside­riamo l’ultimo decennio. Eppure si continua a cercare petrolio e con i governi Berlusconi – dal 2001 al 2006 e dal 2008 a oggi – sono sedi­ci le attività autorizzate nei nostri mari per l’estrazione o la ricerca di petrolio, come denunciano in un’interrogazione parlamentare i senatori Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante. Altre ancora possono ricevere l’ok ora che la legge sviluppo dello scorso luglio ha reso più snelle le procedure. Ma visto che l’appetito vien man­giando, i produttori chiedono di più. Nel documento finale dell’ul­timo convegno di Assomineraria, tenutosi a marzo, gli industriali del greggio si sono lamentati del «costo della burocrazia causato dalla complessità legislativa, che non rendendo certi i tempi auto­rizzativi riduce il valore comples­sivo dei progetti».

BATTAGLIA ADRIATICA
D 30 B.C-.MD, D 26 B.C-.AG. Sono alcune coordinate della battaglia petrolifera in corso nel basso Adriatico. Spettatori inconsape­voli i trabucchi, le antiche mac­chine da pesca, tutelate dal Parco del Gargano. Dopo le Tremiti, le prossime vittime delle piattafor­me saranno loro. Con l’ultima istanza di permesso di ricerca per idrocarburi liquidi e gassosi in un’area di 728 km2 di fronte a Pineto e Vasto (Ch), presentata dalla Petroceltic Italia, diventano più di 6mila i km quadrati di ac­que abruzzesi nel mirino delle oil company. «La situazione è allar­mante e fuori controllo – avverte Angelo Di Matteo, presidente di Legambiente Abruzzo – A Eni ed Edison, che estraggono gas e olio nel mare abruzzese da quasi quarant’anni, si sono aggiunte nell’ultimo quinquennio compa­gnie internazionali, che vedono nell’Abruzzo il nuovo Texas».

IL TEXAS D’ITALIA
Sette mesi fa è stata istituita l’area marina protetta Torre del Cerrano e da anni si attende la nascita del parco nazionale della costa chietina. Eppure altre piat­taforme potrebbero aggiungersi alle nove già esistenti. Tutti impianti perfettamen­te visibili dalla costa, ai quali si oppone Emergenza ambiente Abruzzo, rete composta da 60 associazioni e comitati, fra cui la stessa Legambiente. «L’Abruzzo è considerata da Assomineraria uno dei territori più ricchi di pe­trolio in Italia sia a terra che a mare – conclude Di Matteo – La stessa associazione di categoria individua nella forte resistenza delle popolazioni locali il limite allo sviluppo dei nuovi giacimen­ti. Manca un indirizzo da parte delle istituzioni». Infatti sulle trivellazioni a mare gli enti loca­li possono ben poco, è lo Stato a decidere.

MEDITERRANEO A RISCHIO
Il 20% del traffico petrolifero marittimo mondiale viaggia nel Mediterraneo. E qui l’Italia è il paese con il più alto numero di raffinerie, 17, nelle quali vengono lavorati 2 milioni e 300mila barili di greggio al giorno. Dal 1985 a oggi nel Mediterraneo si sono ve­rificati 27 incidenti con lo sversa­mento di oltre 270mila tonnellate di greggio, il primato ancora una volta spetta al nostro paese con 162mila tonnellate. Ma non sono solo gli incidenti a minacciare le acque e i fondali: l’80% degli scarichi di idrocarburi è dovuto a operazioni di routine, come zavorramenti e lavaggio delle cisterne. Secondo il Rem­pec, il centro regionale marino di risposta all’emergenza inquina­mento per il Mediterraneo, l’in­quinamento dovuto a operazioni di questo tipo è tra le 100 e le 150mila tonnellate di idrocarbu­ri all’anno. Nuove piattaforme, nuovi rischi. E tutto per qualche barile in più.

(Pubblicato su Nuova Ecologia di giugno 2010)


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