27 febbraio 2014

Alluvioni, Italia smemorata

foto di Francesco Loiacono
Genova, ponte Sant'Agata
INCHIESTA A DUE ANNI DALL'ALLUVIONE DI GENOVA
DEL 4/11/2011 CHE PROVOCO'
SEI VITTIME VIDEO / PDF
L'ESPERTO: "MENO CEMENTO, PIU' CURA DEI VERSANTI"

di Francesco Loiacono


Cemento su cemento. Anche dove la natura ha già presentato il conto. Basta scendere lungo il Bisagno e il suo affluente Fereggiano, dai quartieri di Genova a ridosso dei monti fino al mare, per capire che l’Italia è un paese smemorato: nonostante le tragedie le cause del dissesto persistono. Anzi, si aggravano. Come dimostra il sopralluogo che La Nuova Ecologia ha realizzato nella città della Lanterna due anni dopo la piena che il 4 novembre del 2011 provocò sei vittime: non è aumentato lo spazio a disposizione dei torrenti, la manutenzione dei terreni a monte latita, non si è ridotta la cementificazione nelle aree golenali. E per giunta si costruisce ancora.

ORTI SCOMPARSI
Cominciamo da Quezzi, quartiere collinare da dove si possono ammirare da un lato i monti e dall’altro, sullo sfondo, il mare. «Da qui possiamo vedere gli effetti della cementificazione che a partire dal secondo dopoguerra ha consumato suolo e ha impermeabilizzato interamente il territorio – dice Santo Grammatico, presidente di Legambiente Liguria – Dall’alto, perso fra i palazzi che pian piano si sono avvicinati drasticamente all’alveo, non si percepisce più la presenza del torrente Fereggiano».
foto di Francesco Loiacono
Genova vista dal quartiere Quezzi
Sui versanti sono rimasti pochi campi coltivati, i casolari sono stati sostituiti da palazzi o villette. Un patrimonio agricolo perso per sempre. La valle del Fereggiano un tempo era ricca di campi coltivati, come quella limitrofa al Bisagno. Lo dicono i nomi: Bisagnino, besagnin, vuol dire verduraio. I coltivatori scendevano dalle alture di Genova lungo la Val Bisagno per vendere i prodotti degli orti cancellati dall’urbanizzazione. A chiudere come un arco la valle c’è il viadotto “Marassi” dell’autostrada, sotto i palazzi a picco sui fianchi dei monti, uno fa a ombra all’altro che a sua volta priva della bellissima vista sulla valle il caseggiato che gli sta alle spalle. Una selva di abitazioni spuntate senza andar troppo per il sottile negli anni del boom. Soltanto ora, per alleviare la fatica della salita su Quezzi, stanno costruendo un impianto a cremagliera. Ma sempre di cemento si tratta. «Almeno lo stiamo facendo bello – ironizza un operaio al lavoro – Quello che provoca danni è tutto quello che è stato costruito negli anni. Io lo so bene – dice – ogni volta che si allaga da qualche parte in città mandano noi a ripulire e ad aggiustare le opere danneggiate». Scendendo da Quezzi, lungo via Piero Pinetti, il Fereggiano si fa strada fra gli edifici: le fondamenta fanno da argine al rio che dopo qualche centinaio di metri scompare sotto l’asfalto. Una stradina di servizio, sostanzialmente un parcheggio parallelo alla strada principale, ricopre il torrente. Non un’opera realizzata trenta o quarant’anni fa ma nel 2010, quando furono anche abbattuti due palazzi in zona. «Si è esplicitata ancora una volta – riprende Santo Grammatico di Legambiente – una cultura di gestione del territorio che vede i torrenti come infrastrutture da ricoprire e usare per penetrare nell’entroterra ».

DANNI E PAURA
foto di Francesco Loiacono
Targa in ricordo
delle vittime dell'alluvione
del 2011
Poco oltre il corso d’acqua “riemerge” alla luce del sole per giungere all’unico intervento strutturale di un certo rilievo realizzato in questi due anni. Una parete di cemento a contenere una frana e un parapetto, sempre di cemento armato che sostituisce la ringhiera dalla quale l’acqua è tracimata il 4 novembre 2011. Qui il Fereggiano va di nuovo sotto terra e questa volta per sempre: uscirà all’aria aperta oltre un chilometro più in là con un tuffo nel torrente Bisagno. Quel giorno l’acqua era così tanta, e piena di detriti, che di andar giù nel tubo non ne voleva sapere. L’onda ha sommerso tutto il quartiere. Sei donne persero la vita, una targa le ricorda. Ma qui non servono targhe commemorative per mantenere la memoria, ci sono le saracinesche abbassate che parlano da sole. Molti esercizi commerciali non hanno più riaperto: gli aiuti ricevuti non son bastati. «Purtroppo ci hanno pagato il 40% di quello che abbiamo ricomprato – racconta Duccio Mazzocchi, titolare di una ditta che fabbrica materassi e che continua nonostante tutto l’attività – Ho quindi chiesto un prestito di centomila euro alla Carige ma solo per i primi due anni il tasso di interesse era agevolato al 3%, adesso lo stiamo pagando per intero. Insomma, devo dire grazie alla Caritas da cui ho ricevuto cinquemila euro e al prete di zona che me ne ha dati 10mila da una raccolta che aveva raggiunto 400mila euro e ha distribuito fra i commercianti della zona».

CITTADINI IN ALLERTA
Poco più in là, prima di arrivare alla lapide commemorativa, un’istallazione luminosa: la scritta lampeggiante “Comune di Genova - Protezione civile” in caso di allerta può essere sostituita dalle informazioni per la popolazione.
foto di Francesco LoiaconoMitigare il rischio è un lavoro complesso e lungo, ma diffondere le informazioni ai cittadini in tempi rapidi si può fare. «Facciamo campagne informative con le simulazioni nelle scuole, diffondendo libri e volantini, spot televisivi e radiofonici su come convivere con il rischio. Stiamo anche attivando un servizio di telefonate per le persone che vivono in 1.500 edifici nelle aree critiche» racconta Gianni Crivello, assessore comunale alla Protezione civile della giunta Doria insediata a maggio del 2012. Nel 2011 c’era la giunta Vincenzi, coinvolta in un’inchiesta della Procura di Genova proprio sulla gestione dell’allerta. «La nostra città è molto complessa – riprende l’assessore – Siamo attraversati da 88 corsi d’acqua che superano il chilometro di lunghezza e di questi ben 28 sono tombati. A metà 2014 partiranno i lavori per lo scolmatore del Fereggiano ma per completarlo ci vorranno cinque anni. Per affrontare nell’immediato le situazioni di rischio, invece, abbiamo assottigliato il tavolo operativo a 15 persone e monitoriamo il territorio 24 ore su 24 con sorveglianza umana e tecnologica. Presto – promette – saremo in grado di interdire rapidamente parti della città in caso di aggravamento dell’allerta meteo».

FIUME DIMENTICATO
foto di Francesco Loiacono
Il punto in cui il Fereggiano
ha esondato nel 2011


Il viaggio del Fereggiano nel frattempo prosegue al buio sotto l’asfalto e il cemento del quartiere Marassi. L’ultimo tratto è sotto via Monticelli. Il torrente ritrova la luce saltando, come si diceva, nel Bisagno. Un’apertura che si apre perpendicolare sull’argine, rendendo difficile il deflusso dell’acqua in caso di piena del corso principale Com’è avvenuto proprio due anni fa. «Il torrente aveva una larghezza del letto di 96 metri nel 1900, oggi nella parte coperta è largo 48 metri – spiega Enzo Rosso, professore ordinario di costruzioni idrauliche e marittime e idrologia nel Politecnico di Milano e autore del libro in uscita Bisagno, fiume dimenticato (Marsilio editore, 2014)  – È evidente che costringere un fiume in un canale di cemento qualche problema lo pone». Il Bisagno fu coperto durante il fascismo per ragioni igieniche e urbanistiche. «Si vedeva il progresso nel coprire i fiumi – riprende il professor Rosso – oggi sappiamo che vanno invece salvaguardati. Purtroppo però un progetto ambizioso di parziale scopertura, presentato nel 2002, non è stato adottato. Comportava un blocco del traffico per un po’ di tempo. Ecco, bisogna separare nel ragionamento i fiumi dalle strade, perché spesso si guardano i corsi d’acqua come un limite al traffico e alla viabilità». Una logica dura a morire. Come si vede nella zona di Ponte Carrega, poco più a nord risalendo il torrente e superando un’enorme copertura del corso d’acqua: la “lastra” di cemento e asfalto del parcheggio dello stadio Marassi, eredità di Italia ’90. «C’è un progetto che punta a restringere il corso del fiume per circa due chilometri e ad allargare la sede stradale – dice Fabrizio Spiniello,  dell’associazione Amici di Ponte Carrega – Si prevede una tramvia, alla quale non siamo contrari. Però abbiamo paura che il restringimento del Bisagno rappresenti solo un progetto di viabilità e non di messa in sicurezza. Perché comporta l’abbattimento di cinque ponti, di cui due pedonali, da sostituire con due soli ponti carrabili». Un’opera che mette in secondo piano il rischio idrogeologico. «Abbattendo i ponti si aumenta l’impetuosità a valle della piena – aggiunge il professore Enzo Rosso – L’abbattimento ha un senso solo per la viabilità e allora si capisce cosa comanda fra esigenze di traffico e la discesa delle acque dei torrenti». Infatti le nuove esigenze “commerciali” della zona si stanno facendo letteralmente strada. Poco oltre lo storico Ponte Carrega c’era una volta la cementifera, la fabbrica della Italcementi. Oggi non c’è più, al suo posto sorgerà il centro commerciale Bricomen. «Hanno cominciato i lavori poco prima dell’alluvione del 2011 – racconta Ivan De Fazio, dell’associazione Ponte Carrega – Non c’è stata partecipazione pubblica e quando abbiamo protestato è stato scritto nell’accordo che prima di aprire il cantiere avrebbero realizzato la messa in sicurezza del rio Mermi, un affluente del Bisagno. Invece hanno cominciato a costruire il centro commerciale, con il risultato che l’acqua arriva nel quartiere ogni volta che piove. E la beffa sarà che ci troveremo nella valletta un edificio dalle cubature enormi, perché grazie a un cavillo hanno esteso a tutta la nuova struttura l’altezza di 45 metri del punto più alto della cementifera».

FOCE DI CEMENTO
foto di Francesco Loiacono
Foce del Bisagno
Scendiamo infine lungo il Bisagno, da ponte Castelfidardo si “apprezza” la fotografia della città: sul letto del fiume restano solo tre arcate  dell’antico ponte Sant’Agata, una volta erano 28 e coprivano l’intera area golenale fino all’odierno quartiere di San Fruttuoso. Dopo aver salutato i ruderi dell’antico ponte, le acque s’immettono nelle viscere della città: passano sotto la stazione di Genova Brignole e i viali d’epoca fascista per rivedere la luce un chilometro più avanti. Alla foce. E se ad accoglierla c’è una mareggiata con vento da sud, di Libeccio, incontra pure difficoltà nel defluire. Nonostante il grande sbocco a quattro arcate, manco a dirlo, di cemento armato.



DISSESTO IDROGEOLOGICO IN CIFRE
6.633 i comuni in cui sono presenti aree a rischio idrogeologico;
Oltre 5 milioni di italiani vivono in zone esposte al pericolo di frane ed alluvioni;
541 inondazioni fra il 1960 e il 2012
(Fonte: Legambiente Ecosistema rischio 2011)

(Pubblicato sul numero di dicembre 2013 de La Nuova Ecologia)

Per prevenire le alluvioni meno cemento e più manutenzione



Curare i versanti e prevenire le piene. La ricetta del geologo Guido Paliaga

Intervista di Francesco Loiacono

Genova, vista dal quartiere Quezzi
Gestire i torrenti è difficile. Occorre più cura del territorio che interventi in cemento. E soprattutto bisogna avere rispetto per questo tipo di ambiente: «Perché l’acqua che scende dalle montagne non è come quella che scorre nei tubi di casa, è carica di detriti, vegetazione e rifiuti. E pesa tantissimo» avverte Guido Paliaga, vicepresidente dell’ordine dei geologi della Liguria.




Guido Paliaga


Dopo l’alluvione del 2011 le sembra che Genova abbia voltato pagina sul piano della pianificazione urbana?
Sinceramente grandi cambiamenti all’atto pratico non ne vedo. Ci sono state, e sono importanti, campagne di comunicazione rivolte ai cittadini sui comportamenti da tenere in caso di eventi estremi. Visto che non si può eliminare il rischio di esondazione almeno si comincia da questo.

Si parla tanto dello scolmatore per mettere in sicurezza il Fereggiano. Come valuta questo tipo di opere?
È una soluzione molto costosa, un’opera mastodontica che non si sa neanche quando sarà ultimata. In realtà il problema va affrontato con un’ottica più ampia, investendo sulla manutenzione del territorio.

In che modo?
Un problema critico c’è in val Bisagno, dove i terrazzamenti sono abbandonati. Quando non c’è manutenzione i muretti crollano e aumenta così anche il trasporto solido nei torrenti. Non dimentichiamo però che un sintomo di cattiva gestione sta anche nell’abbandono della spazzatura sui monti o gli incendi che ci privano della protezione degli alberi e fanno aumentare l’erosione.

Ma il Comune di Genova può intervenire nella gestione del territorio che gli sta a monte?
Un comune grande può dire la sua visto che i problemi arrivano in città. Teoricamente i piani di bacino sono un ottimo strumento ma non si fa abbastanza. Dovremmo piuttosto adeguare gli studi, è importante pensare a come sarà il territorio fra trent’anni, pensare alle precipitazioni future che saranno, ormai è acclarato, sempre più spesso di forte intensità. Infine bisogna incentivare e formare i giovani che tornano all’agricoltura, anche sfruttando i fondi europei.

Intanto la Legge di Stabilità finanzia la prevenzione con 180 milioni di euro in tre anni.
Questi fondi sono briciole. Basti pensare a quanto costano opere come lo scolmatore. Servono invece interventi meno eclatanti e più diffusi, forse i 180 milioni basterebbero solo per conoscere il territorio italiano. Ci vuole poi un monitoraggio continuo. Dobbiamo razionalizzare tutto perché di suolo ne abbiamo consumato tanto. Anche in regioni come la Liguria, avara di suoli, ci sono spazi che possono essere recuperati senza costruire altro.
 


(Intervista pubblicata sul numero di dicembre 2013 de La Nuova Ecologia)