5 maggio 2015

Amianto, assedio silenzioso

La sua pericolosità è nota ormai da decenni. Eppure all’amianto si continua a pagare un prezzo altissimo di vite umane. Uno studio nel Lazio rivela la dimensione del rischio cui siamo tutti esposti / di FRANCESCO LOIACONO e MATTEO NARDI



Un nemico pubblico è fra noi e causa quattromila  morti l’anno. Nonostante sia stato messo al bando  ben ventitré anni fa con la legge 257 del 1992,  l’amianto è ancora molto diffuso in Italia. E più passa  il tempo, più diventa pericoloso. Perché degradandosi  le sue fibre si disperdono più facilmente  nell’ambiente. Le cifre sono inquietanti. Secondo  stime del Cnr e dell’Ispesl ci sono circa 32 milioni di tonnellate  di amianto nel Belpaese. Sono inoltre 50.000 gli edifici pubblici e  privati ancora da bonificare. Ma le bonifiche proseguono a ritmi  lentissimi. Nel Lazio, ad esempio, andando avanti con la velocità  attuale l’ultimo pezzo di fibra verrebbe rimosso nel 2100.  E questo nonostante nel 2013 sia  stato approvato il Piano nazionale  amianto. «Uno strumento che prevede  finanziamenti per rimuoverlo  da edifici come le scuole, incentivi  per la sostituzione dei tetti in  eternit con i pannelli fotovoltaici,  ma che ancora non decolla – denuncia  Fulvio Aurora, presidente  dell’Associazione italiana esposti  amianto (Aiea) – Qualcosa è stato  fatto, ma manca molto, mancano  soprattutto i fondi per dare attuazione  al piano. Senza dimenticare  che molti siti contaminati dall’amianto  rientrano nei Sin, i siti inseriti  nel Programma nazionale  di bonifica del ministero dell’Ambiente  ». Sono 75.000 gli ettari di  territorio ricadenti nei Sin in cui  è presente l’amianto: aree industriali  da bonificare, dall’amianto  come da altri agenti inquinanti.  Insomma, un’emergenza che si  intreccia, diventando esplosiva,  con altri ecocidi (vedi box a destra).  E che non ammette ulteriori  ritardi: il numero di morti per  mesotelioma pleurico, tumore ai polmoni, alla laringe, alle ovaie  (fra le più gravi patologie causate  dall’amianto) è destinato a crescere  alla luce del lungo periodo di  latenza della malattia, tanto che  gli epidemiologi prevedono un picco  dei casi già nei prossimi anni. 

REGIONE IN RITARDO 
Un milione. È il numero spaventoso  delle tonnellate di amianto  che si trovano nel Lazio. Per avere  un’idea di quanto sia grande  questo numero, basti pensare che  una gigantesca portaerei americana,  a pieno carico, arriva a pesare  circa 100.000 tonnellate. È come  se nella regione fossero parcheggiate  dieci enormi portaerei d’amianto.  Un materiale killer che  ha fatto, dal 2001 a oggi, 1.042  vittime nel Lazio, e non solo fra i  lavoratori. Lo dimostra il numero  crescente delle donne afflitte da  mesotelioma. «L’ipotesi è che ci  sia una componente ambientale  dell’esposizione all’amianto – dice  Francesco Forastiere, direttore    dell’unità operativa complessa  del dipartimento di Epidemiologia  del Servizio sanitario del Lazio,  che ha registrato tutti i casi  di mesotelioma nella regione dal  2001 al 2013 – Per gli uomini si  tratta di un’esposizione da lavoro, lo dimostra la distribuzione  geografica dei casi di mesotelioma  maschili, ad esempio nella Capitale:  sono quasi tutti nei quartieri a  est a presenza operaia. Mentre la  distribuzione geografica è diversa  per le donne – continua – si trovano soprattutto nel centro e al nord  della città. Ecco perché ci domandiamo:  “questi casi femminili sono  dovuti a esposizione ambientale?”.  Ci sono molte abitazioni con tetti  in eternit e altre strutture in  amianto. Ecco perché ipotizziamo  un’esposizione ambientale».  

FIBRA SECOLARE 
In dieci anni sono state rimosse  soltanto 100.000 tonnellate del  materiale e solamente il 12% del  territorio è stato regolarmente  mappato e individuato da satelliti,  aeroplani o moderni droni, il  cui utilizzo sperimentale è partito  nel luglio 2014 nel Municipio I a  Roma. Se la bonifica continuerà  con questi ritmi ci vorranno altri  cento anni perché il Lazio sia libero  dall’amianto, ma ogni anno  che passa il rischio di incidenti  aumenta sempre di più. Ne è un  esempio l’incendio che ha colpito  lo scorso 17 gennaio la Cemamit,  storica fabbrica di cemento amianto  del frusinate, che si è poi fortunatamente  rivelato circoscritto solo ad alcuni rifiuti abbandonati  nei pressi del complesso.

LEGGE DI SPERANZA 
L’emergenza laziale è stata al centro  del convegno “Per una regione  libera dall’amianto” che si è svolto  il 4 febbraio, proprio nella sede della  Regione, fra le testimonianze degli  esposti e degli studiosi sotto lo  slogan Non possiamo aspettare oltre.  «Dobbiamo trattare in modo organico  e sinergico la mappatura, la  sorveglianza e la prevenzione sanitaria,  lo smaltimento, le bonifiche  e le informazione ai cittadini, oltre  che la formazione degli operatori»  spiega Cristiana Avenali, consigliera  regionale che ha presentato  una legge con la quale si vorrebbe  istituire uno “Sportello amianto”  nelle Asl e rendere gratuite le prestazioni  diagnostiche. Il testo di  legge vuole inoltre promuovere un  registro degli edifici con presenza  di amianto e la creazione di un nucleo  amianto per il coordinamento  delle azioni e il recupero delle risorse  necessarie. «Questa proposta  di legge – prosegue Avenali – cerca  di affrontare in maniera concreta  e sistemica i problemi legati all’esposizione  all’amianto in modo da  sopperire ai tanti ritardi ormai  ventennali. È iniziato un percorso  importante per fornire ai cittadini  uno strumento al servizio della  loro salute e di quella del territorio  – conclude – Le prossime settimane  saranno utili per recuperare  tutte le proposte, le istanze e le  necessità migliorative del testo di  legge proposto, affinché anche il  Lazio possa finalmente dotarsi di  una legge regionale in materia».  Intanto, rivolgendosi al nuovo  Sportello amianto del Municipio I  di Roma Capitale, i romani potranno  essere assistiti nella rimozione  di manufatti contenenti amianto a  costi calmierati. Lo sportello, online  per il primo anno a cura dell’Aiea,  prevede anche assistenza e  supporto presso le Asl competenti  per gli esposti o ex esposti. Sono  i primi passi per un futuro libero  dall’amianto. Ancora lontano.

(di Francesco Loiacono e Matteo Nardi, pubblicato su La Nuova Ecologia di maggio 2015)

3 marzo 2014

L’Italia condanna gli ecoreati



Cava a Lazzaro di Motta San Giovanni (Rc)
Pene più severe e prescrizioni più lunghe per chi compie reati contro l’ambiente. Il Codice penale si aggiorna. Viaggio in Calabria, fra gli epicentri dell’ecocidio di Francesco Loiacono


Le pene per chi commette reati contro l’ambiente in Italia s’inaspriscono. Accendere roghi di rifiuti ad esempio, come prevede il decreto sulla “Terra dei fuochi” approvato nel dicembre scorso, comporta fra due e cinque anni di reclusione. Ma questo non è l’unico giro di vite nella legislazione italiana contro chi offende gli ecosistemi e la salute pubblica. Presto infatti nel Codice penale saranno inseriti anche i delitti d’inquinamento e disastro ambientale. Le pene previste sono rispettivamente la reclusione da uno a cinque anni (con multa fino a 100.000 euro) e da quattro a venti anni. Una riforma epocale, fortemente invocata da Legambiente, la cui discussione è iniziata durante le scorse settimane alla Camera sulla base del testo approvato a fine 2013 dalla commissione Giustizia di Montecitorio, unificando le proposte di legge avanzate da Ermete Realacci (Pd), Salvatore Micillo (M5S) e Serena Pellegrino (Sel). Nel testo s’introduce anche il ravvedimento operoso, con sconti di pena per chi s’impegnerà a bonificare i luoghi inquinati, la confisca obbligatoria dei profitti legati al reato ambientale e, soprattutto, il prolungamento dei termini di prescrizione. Inquirenti e forze dell’ordine potranno insomma contrastare meglio i circa 30mila ecoreati l’anno, uno ogni quattro ore, che si consumano lungo lo Stivale. L’attuale ordinamento, infatti, vista anche la lentezza dei processi, rischia di vanificare lo sforzo di punire i colpevoli. Come sta avvenendo in Calabria, fra le regioni più martoriate dallo smaltimento illecito, dove i processi per alcuni gravicasi d’inquinamento procedono a singhiozzo.

Gomorra calabra
La regione d’altro canto, secondo il Rapporto Ecomafia 2013 di Legambiente, è al primo posto per incidenza dei reati nel ciclo dei rifiuti in rapporto alla popolazione e seconda (dopo la Campania) in rapporto alla superficie. Vibo Valentia e Reggio Calabria primeggiano invece nella classifica delle province. D’altro canto centomila tonnellate di rifiuti pericolosi sono state occultate solamente in una cava d’argilla in località Lazzaro di Motta San Giovanni, a una ventina di chilometri da Reggio Calabria percorrendo la Statale 106. Qui, in un’area Sic a trecento metri dal mare e a ridosso di una zona abitata, con il consenso e la collaborazione dei proprietari della cava, sono stati interrati rifiuti provenienti dalla centrale Enel Federico II di Brindisi, dopo che questi venivano declassati a rifiuti non pericolosi con certificazioni di laboratori privati. Un affare da sei milioni di euro l’anno per il quale dieci persone sono state arrestate nel 2009. Migliaia di camion per un paio d’anni hanno viaggiato, carichi di rifiuti industriali, da Brindisi a Reggio Calabria. Un traffico scoperto dalla procura di Reggio Calabria in collaborazione con il Corpo forestale dello Stato con l’operazione Leucopetra, dal nome antico del promontorio di Capo dell’Armi, famoso per la pietra bianca reggina. «Agli uomini del nucleo investigativo di polizia ambientale e forestale (Nipaf, ndr) del comando provinciale del Corpo forestale dello stato di Reggio Calabria che hanno lavorato a questo caso, Legambiente ha voluto consegnare il PremioAmbiente e Legalità 2010 – ricorda Nuccio Barillà della segreteria nazionale dell’associazione – A loro va riconosciuto il merito di aver scoperto questo traffico che ha avvelenato la nostra terra». 
cava di Lazzaro a Motta San Giovanni (Rc)
Cava di Lazzaro
Motta San Giovanni (Rc)

Il processo che nasce da questa operazione si avvicina alla fine del primo grado di giudizio. «Per la prima volta risultano imputati funzionari e quadri dell’Enel di Brindisi – racconta Angelo Calzone, l’avvocato del Wwf, costituitasi parte civile insieme a Legambiente per mezzo dell’avvocato Rodolfo Ambrosio – Questi sono accusati di aver costituito un’associazione a delinquere e un’organizzazione finalizzata allo smaltimento di rifiuti pericolosi che venivano formalmente avviati al recupero ma sostanzialmente interrati nella cava». Per questo come per altri processi, però, potrebbe arrivare presto la prescrizione. «Non si può punire una discarica abusiva, anche di grandi dimensioni, con la pena dell’arresto e dell’ammenda e una prescrizione che è al massimo di quattro anni e mezzo – aggiunge Calzone – Per questo ben venga la riforma in corso: va nella direzione giusta». 

Disastro a processo
L’ingresso dei reati ambientali nel Codice penale consentirà di ottenere giustizia per i tanti casi di inquinamento industriale che al Sud non mancano. Perché anche la Calabria ha la "sua Eternit" e un processo per malattie e decessi di operai che hanno lavorato a contatto con sostanze pericolose. Solo che questo processo si celebra al Tribunale di Paola (Cs), lontano dai riflettori dei grandi media e a rilento. È quello che vede sul banco degli imputati i vertici dell’industria tessile Marlane di Praia a Mare, in provincia di Cosenza. Un’azienda fondata negli anni Cinquanta dal conte Rivetti, poi passata al Lanificio Maratea, poi all’Eni-Lanerossi nel 1969, quando furono abbattuti i muri che separavano i reparti di lavoro lasciando gli operai tra i fumi delle sostanze  chimiche usate per la coloritura. Nel 1987 il gruppo tessile Lanerossi venne ceduto alla Marzotto di Valdagno, che detiene ancora la proprietà dello stabilimento calabrese. Qui, secondo l’impianto accusatorio, alcuni degli imputati (12 dirigenti della Marzotto, ciascuno per il proprio ruolo) avrebbero omesso i controlli sullo smaltimento degli scarti di lavorazione in condizioni di sicurezza, determinando il riversamento, sull’area antistante l’azienda, di rifiuti speciali pericolosi come coloranti e fanghi. E anche l’interramento di bidoni e fusti contenenti residui di coloranti. Nel frattempo un centinaio di lavoratori si è ammalatodi tumore, alcuni sono già deceduti. Il 19 aprile 2011 si è svolta la prima udienza dibattimentale del processo: Legambiente, Wwf e Vas, più Medicina democratica,Slai Cobas, Regione Calabria e i Comuni di Praia e Tortora si sono costituiti parte civile. Oggi però, complice la lentezza dei tempi della giustizia e della complessità del processo, si teme che alcuni dei reati possano cadere in prescrizione. Le accuse mosse riguardano i reati di omicidio colposo, lesioni colpose,disastro e violazione dell’articolo 437 c.p. (rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro). «Considerando i tre gradi di giudizio c’è il rischio che alcuni reati si possano prescrivere – spiega l’avvocato Fabio Spinelli, che segue la causa per le parti civili – In effetti, però, i tempi di prescrizione dei reati per i quali si procede cambiano per ciascun capo d’imputazione. Ci sono reati
Marlane, un blitz di Legambiente
come l’omicidio colposo plurimo per il quale è previsto un termine molto ampio. Il reato di lesioni personali colpose si prescrive invece al massimo in sette anni e mezzo. Quello di disastro in 5 anni nel caso di disastro ancora in corso e in 12 per uno che si è concluso» conclude Spinelli. Insomma, la lentezza del processo fa temere il peggio. Intanto l’area non è stata ancora bonificata e i veleni giacciono nel terreno.

Giustizia a rilento
Quello alla Marlane non è l’unico processo di cui si teme l’estinzione in Calabria. Poche settimane fa è stato aperto il terzo troncone (i primi due sono stati archiviati) del processo all’ex Pertusola: i materiali di scarto provenienti dallo stabilimento metallurgico crotonese sono finiti all’interno di discariche abusive. Inoltre i rifiuti sarebbero stati utilizzati come materiale edile per costruire scuole, palazzine, strade, le banchine del porto e la questura. Nei Tribunali di Paola, Castrovillari, Lamezia e Catanzaro ci sono procedimenti sul sottodimensionamento o la mancata manutenzione dei depuratori. A Vibo Valentia è in corso il procedimento relativo all’operazione Pet Coke, con la quale il Noe ha scoperto l’arrivo nel porto calabrese di motonavi battenti bandiera panamense e greca cariche di pet-coke proveniente dal Venezuela e dagli Usa e stoccato in un deposito a Cuccuruta di Porto Salvo, pronto per essere utilizzato come combustibile nei cementifici della zona. «Questi e altri procedimenti per reati ambientali purtroppo rischiano la prescrizione – dice Rodolfo Ambrosio, legale di parte civile di Legambiente in Calabria – E la macchinosità della giustizia italiana non aiuta: la procura di Lamezia, per esempio, ha aperto una grossa inchiesta per smaltimento di rifiuti che coinvolge 98 persone. Basta che ci sia un problema in una sola notifica a comparire e bisogna rifarle tutte da capo. Intanto il tempo passa. Insomma, i reati ambientali non dovrebbero andare mai in prescrizione: il disastro ambientale è permanente, che senso ha prescriverlo?». 

(Pubblicato su La Nuova Ecologia di febbraio 2014)

Piccirillo: «Per l’ambiente tutela assoluta»

Parla il gip Raffaele Piccirillo, che ha lavorato al disegno di legge

Intervista di Francesco Loiacono



 




Un cambiamento epocale». Così Raffaele Piccirillo, il gip che per il
ministero dell’Ambiente ha presieduto una commissione propedeutica all’iter parlamentare commenta l’ingresso dei reati ambientali nel Codice penale.

Perché è così importante questo provvedimento?
Perché l’ambiente merita una tutela come quella che si riserva alla vita, assoluta e
contro qualsiasi forma di aggressione, e questo viene riconosciuto per la prima volta.
La proposta in via d’approvazione dice che un danno a una foresta, per fare un esempio, è di per sé un delitto: il danno ambientale. Il disastro ambientale si configura poi anche a prescindere dal pericolo per la pubblica incolumità, quando il danneggiamento dell’ecosistema presenta una rilevante gravità oggettiva. Non è necessario che vi sia pericolo concreto per la pubblica incolumità o per la vita. In questo consiste il principale salto di qualità rispetto alla prassi attuale nella quale, dovendo applicare un delitto contro la pubblica incolumità, il cosiddetto disastro innominato di cui all’articolo 434 del codice penale, non può configurarsi disastro per la mera aggressione, pur grave e irreparabile, all’ecosistema.

Quali sono le altre novità?
La pena per disastro ambientale può arrivare a venti anni, otto per il danno ambientale. E nessuno potrà sottrarsi alla pena senza aver provveduto al ripristino con la bonifica, neanche in caso di sospensione della pena. Per logica riparativa, poi, il soggetto che collabora nello scoprire complici o risorse utilizzate per reiterare il reato o che spontaneamente effettua una bonifica gode di attenuanti. Sono previste aggravanti per i reati associativi e per chi incrementa o reinveste i profitti illeciti nella green economy o nella gestione dei rifiuti. Infine gli inquirenti potranno effettuare intercettazioni non solo nei casi di traffico illecito, i tempi di prescrizione si allungano e s’introduce lo strumento della confisca per equivalente: il profitto di un reato si può confiscare anche quando non lo si trova sequestrando l’equivalente nel patrimonio di chi lo ha commesso.

Le pene aumentano se l’associazione include pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi in materia ambientale.
Sì, perché chi può contare stabilmente su una collaborazione con qualcuno preposto
ai controlli o al rilascio delle autorizzazioni può portare avanti il proprio disegno illecito “con tranquillità”. Inoltre per associazione mafiosa l’aggravante sussiste anche quando è finalizzata a infiltrarsi nei settori della raccolta dei rifiuti o delle bonifiche.

Manca qualcosa nel testo in approvazione?
Un avverbio, “abusivamente”, che c’era nel testo preparato per la commissione. Le
condotte dei due delitti principali dovrebbero essere così costruite: "chiunque abusivamente cagiona o contribuisce a cagionare un danno ambientale/disastro ambientale è punito...". Così i due delitti si possono applicare anche quando la compromissione dell’ecosistema si realizzi con condotte diverse dalle immissioni. Per esempio attraverso costruzioni abusive o scavi propedeutici, o ancora con la
coltivazione irregolare di una cava. Inoltre manca un’ipotesi di agevolazione colposa per chi consente che sul proprio suolo o impianto altri realizzino un disastro ambientale. Nonostante questo credo che il testo segni una svolta epocale nel contrasto ai reati ambientali.


(Pubblicata su La Nuova Ecologia di febbraio 2014)

27 febbraio 2014

Alluvioni, Italia smemorata

foto di Francesco Loiacono
Genova, ponte Sant'Agata
INCHIESTA A DUE ANNI DALL'ALLUVIONE DI GENOVA
DEL 4/11/2011 CHE PROVOCO'
SEI VITTIME VIDEO / PDF
L'ESPERTO: "MENO CEMENTO, PIU' CURA DEI VERSANTI"

di Francesco Loiacono


Cemento su cemento. Anche dove la natura ha già presentato il conto. Basta scendere lungo il Bisagno e il suo affluente Fereggiano, dai quartieri di Genova a ridosso dei monti fino al mare, per capire che l’Italia è un paese smemorato: nonostante le tragedie le cause del dissesto persistono. Anzi, si aggravano. Come dimostra il sopralluogo che La Nuova Ecologia ha realizzato nella città della Lanterna due anni dopo la piena che il 4 novembre del 2011 provocò sei vittime: non è aumentato lo spazio a disposizione dei torrenti, la manutenzione dei terreni a monte latita, non si è ridotta la cementificazione nelle aree golenali. E per giunta si costruisce ancora.

ORTI SCOMPARSI
Cominciamo da Quezzi, quartiere collinare da dove si possono ammirare da un lato i monti e dall’altro, sullo sfondo, il mare. «Da qui possiamo vedere gli effetti della cementificazione che a partire dal secondo dopoguerra ha consumato suolo e ha impermeabilizzato interamente il territorio – dice Santo Grammatico, presidente di Legambiente Liguria – Dall’alto, perso fra i palazzi che pian piano si sono avvicinati drasticamente all’alveo, non si percepisce più la presenza del torrente Fereggiano».
foto di Francesco Loiacono
Genova vista dal quartiere Quezzi
Sui versanti sono rimasti pochi campi coltivati, i casolari sono stati sostituiti da palazzi o villette. Un patrimonio agricolo perso per sempre. La valle del Fereggiano un tempo era ricca di campi coltivati, come quella limitrofa al Bisagno. Lo dicono i nomi: Bisagnino, besagnin, vuol dire verduraio. I coltivatori scendevano dalle alture di Genova lungo la Val Bisagno per vendere i prodotti degli orti cancellati dall’urbanizzazione. A chiudere come un arco la valle c’è il viadotto “Marassi” dell’autostrada, sotto i palazzi a picco sui fianchi dei monti, uno fa a ombra all’altro che a sua volta priva della bellissima vista sulla valle il caseggiato che gli sta alle spalle. Una selva di abitazioni spuntate senza andar troppo per il sottile negli anni del boom. Soltanto ora, per alleviare la fatica della salita su Quezzi, stanno costruendo un impianto a cremagliera. Ma sempre di cemento si tratta. «Almeno lo stiamo facendo bello – ironizza un operaio al lavoro – Quello che provoca danni è tutto quello che è stato costruito negli anni. Io lo so bene – dice – ogni volta che si allaga da qualche parte in città mandano noi a ripulire e ad aggiustare le opere danneggiate». Scendendo da Quezzi, lungo via Piero Pinetti, il Fereggiano si fa strada fra gli edifici: le fondamenta fanno da argine al rio che dopo qualche centinaio di metri scompare sotto l’asfalto. Una stradina di servizio, sostanzialmente un parcheggio parallelo alla strada principale, ricopre il torrente. Non un’opera realizzata trenta o quarant’anni fa ma nel 2010, quando furono anche abbattuti due palazzi in zona. «Si è esplicitata ancora una volta – riprende Santo Grammatico di Legambiente – una cultura di gestione del territorio che vede i torrenti come infrastrutture da ricoprire e usare per penetrare nell’entroterra ».

DANNI E PAURA
foto di Francesco Loiacono
Targa in ricordo
delle vittime dell'alluvione
del 2011
Poco oltre il corso d’acqua “riemerge” alla luce del sole per giungere all’unico intervento strutturale di un certo rilievo realizzato in questi due anni. Una parete di cemento a contenere una frana e un parapetto, sempre di cemento armato che sostituisce la ringhiera dalla quale l’acqua è tracimata il 4 novembre 2011. Qui il Fereggiano va di nuovo sotto terra e questa volta per sempre: uscirà all’aria aperta oltre un chilometro più in là con un tuffo nel torrente Bisagno. Quel giorno l’acqua era così tanta, e piena di detriti, che di andar giù nel tubo non ne voleva sapere. L’onda ha sommerso tutto il quartiere. Sei donne persero la vita, una targa le ricorda. Ma qui non servono targhe commemorative per mantenere la memoria, ci sono le saracinesche abbassate che parlano da sole. Molti esercizi commerciali non hanno più riaperto: gli aiuti ricevuti non son bastati. «Purtroppo ci hanno pagato il 40% di quello che abbiamo ricomprato – racconta Duccio Mazzocchi, titolare di una ditta che fabbrica materassi e che continua nonostante tutto l’attività – Ho quindi chiesto un prestito di centomila euro alla Carige ma solo per i primi due anni il tasso di interesse era agevolato al 3%, adesso lo stiamo pagando per intero. Insomma, devo dire grazie alla Caritas da cui ho ricevuto cinquemila euro e al prete di zona che me ne ha dati 10mila da una raccolta che aveva raggiunto 400mila euro e ha distribuito fra i commercianti della zona».

CITTADINI IN ALLERTA
Poco più in là, prima di arrivare alla lapide commemorativa, un’istallazione luminosa: la scritta lampeggiante “Comune di Genova - Protezione civile” in caso di allerta può essere sostituita dalle informazioni per la popolazione.
foto di Francesco LoiaconoMitigare il rischio è un lavoro complesso e lungo, ma diffondere le informazioni ai cittadini in tempi rapidi si può fare. «Facciamo campagne informative con le simulazioni nelle scuole, diffondendo libri e volantini, spot televisivi e radiofonici su come convivere con il rischio. Stiamo anche attivando un servizio di telefonate per le persone che vivono in 1.500 edifici nelle aree critiche» racconta Gianni Crivello, assessore comunale alla Protezione civile della giunta Doria insediata a maggio del 2012. Nel 2011 c’era la giunta Vincenzi, coinvolta in un’inchiesta della Procura di Genova proprio sulla gestione dell’allerta. «La nostra città è molto complessa – riprende l’assessore – Siamo attraversati da 88 corsi d’acqua che superano il chilometro di lunghezza e di questi ben 28 sono tombati. A metà 2014 partiranno i lavori per lo scolmatore del Fereggiano ma per completarlo ci vorranno cinque anni. Per affrontare nell’immediato le situazioni di rischio, invece, abbiamo assottigliato il tavolo operativo a 15 persone e monitoriamo il territorio 24 ore su 24 con sorveglianza umana e tecnologica. Presto – promette – saremo in grado di interdire rapidamente parti della città in caso di aggravamento dell’allerta meteo».

FIUME DIMENTICATO
foto di Francesco Loiacono
Il punto in cui il Fereggiano
ha esondato nel 2011


Il viaggio del Fereggiano nel frattempo prosegue al buio sotto l’asfalto e il cemento del quartiere Marassi. L’ultimo tratto è sotto via Monticelli. Il torrente ritrova la luce saltando, come si diceva, nel Bisagno. Un’apertura che si apre perpendicolare sull’argine, rendendo difficile il deflusso dell’acqua in caso di piena del corso principale Com’è avvenuto proprio due anni fa. «Il torrente aveva una larghezza del letto di 96 metri nel 1900, oggi nella parte coperta è largo 48 metri – spiega Enzo Rosso, professore ordinario di costruzioni idrauliche e marittime e idrologia nel Politecnico di Milano e autore del libro in uscita Bisagno, fiume dimenticato (Marsilio editore, 2014)  – È evidente che costringere un fiume in un canale di cemento qualche problema lo pone». Il Bisagno fu coperto durante il fascismo per ragioni igieniche e urbanistiche. «Si vedeva il progresso nel coprire i fiumi – riprende il professor Rosso – oggi sappiamo che vanno invece salvaguardati. Purtroppo però un progetto ambizioso di parziale scopertura, presentato nel 2002, non è stato adottato. Comportava un blocco del traffico per un po’ di tempo. Ecco, bisogna separare nel ragionamento i fiumi dalle strade, perché spesso si guardano i corsi d’acqua come un limite al traffico e alla viabilità». Una logica dura a morire. Come si vede nella zona di Ponte Carrega, poco più a nord risalendo il torrente e superando un’enorme copertura del corso d’acqua: la “lastra” di cemento e asfalto del parcheggio dello stadio Marassi, eredità di Italia ’90. «C’è un progetto che punta a restringere il corso del fiume per circa due chilometri e ad allargare la sede stradale – dice Fabrizio Spiniello,  dell’associazione Amici di Ponte Carrega – Si prevede una tramvia, alla quale non siamo contrari. Però abbiamo paura che il restringimento del Bisagno rappresenti solo un progetto di viabilità e non di messa in sicurezza. Perché comporta l’abbattimento di cinque ponti, di cui due pedonali, da sostituire con due soli ponti carrabili». Un’opera che mette in secondo piano il rischio idrogeologico. «Abbattendo i ponti si aumenta l’impetuosità a valle della piena – aggiunge il professore Enzo Rosso – L’abbattimento ha un senso solo per la viabilità e allora si capisce cosa comanda fra esigenze di traffico e la discesa delle acque dei torrenti». Infatti le nuove esigenze “commerciali” della zona si stanno facendo letteralmente strada. Poco oltre lo storico Ponte Carrega c’era una volta la cementifera, la fabbrica della Italcementi. Oggi non c’è più, al suo posto sorgerà il centro commerciale Bricomen. «Hanno cominciato i lavori poco prima dell’alluvione del 2011 – racconta Ivan De Fazio, dell’associazione Ponte Carrega – Non c’è stata partecipazione pubblica e quando abbiamo protestato è stato scritto nell’accordo che prima di aprire il cantiere avrebbero realizzato la messa in sicurezza del rio Mermi, un affluente del Bisagno. Invece hanno cominciato a costruire il centro commerciale, con il risultato che l’acqua arriva nel quartiere ogni volta che piove. E la beffa sarà che ci troveremo nella valletta un edificio dalle cubature enormi, perché grazie a un cavillo hanno esteso a tutta la nuova struttura l’altezza di 45 metri del punto più alto della cementifera».

FOCE DI CEMENTO
foto di Francesco Loiacono
Foce del Bisagno
Scendiamo infine lungo il Bisagno, da ponte Castelfidardo si “apprezza” la fotografia della città: sul letto del fiume restano solo tre arcate  dell’antico ponte Sant’Agata, una volta erano 28 e coprivano l’intera area golenale fino all’odierno quartiere di San Fruttuoso. Dopo aver salutato i ruderi dell’antico ponte, le acque s’immettono nelle viscere della città: passano sotto la stazione di Genova Brignole e i viali d’epoca fascista per rivedere la luce un chilometro più avanti. Alla foce. E se ad accoglierla c’è una mareggiata con vento da sud, di Libeccio, incontra pure difficoltà nel defluire. Nonostante il grande sbocco a quattro arcate, manco a dirlo, di cemento armato.



DISSESTO IDROGEOLOGICO IN CIFRE
6.633 i comuni in cui sono presenti aree a rischio idrogeologico;
Oltre 5 milioni di italiani vivono in zone esposte al pericolo di frane ed alluvioni;
541 inondazioni fra il 1960 e il 2012
(Fonte: Legambiente Ecosistema rischio 2011)

(Pubblicato sul numero di dicembre 2013 de La Nuova Ecologia)

Per prevenire le alluvioni meno cemento e più manutenzione



Curare i versanti e prevenire le piene. La ricetta del geologo Guido Paliaga

Intervista di Francesco Loiacono

Genova, vista dal quartiere Quezzi
Gestire i torrenti è difficile. Occorre più cura del territorio che interventi in cemento. E soprattutto bisogna avere rispetto per questo tipo di ambiente: «Perché l’acqua che scende dalle montagne non è come quella che scorre nei tubi di casa, è carica di detriti, vegetazione e rifiuti. E pesa tantissimo» avverte Guido Paliaga, vicepresidente dell’ordine dei geologi della Liguria.




Guido Paliaga


Dopo l’alluvione del 2011 le sembra che Genova abbia voltato pagina sul piano della pianificazione urbana?
Sinceramente grandi cambiamenti all’atto pratico non ne vedo. Ci sono state, e sono importanti, campagne di comunicazione rivolte ai cittadini sui comportamenti da tenere in caso di eventi estremi. Visto che non si può eliminare il rischio di esondazione almeno si comincia da questo.

Si parla tanto dello scolmatore per mettere in sicurezza il Fereggiano. Come valuta questo tipo di opere?
È una soluzione molto costosa, un’opera mastodontica che non si sa neanche quando sarà ultimata. In realtà il problema va affrontato con un’ottica più ampia, investendo sulla manutenzione del territorio.

In che modo?
Un problema critico c’è in val Bisagno, dove i terrazzamenti sono abbandonati. Quando non c’è manutenzione i muretti crollano e aumenta così anche il trasporto solido nei torrenti. Non dimentichiamo però che un sintomo di cattiva gestione sta anche nell’abbandono della spazzatura sui monti o gli incendi che ci privano della protezione degli alberi e fanno aumentare l’erosione.

Ma il Comune di Genova può intervenire nella gestione del territorio che gli sta a monte?
Un comune grande può dire la sua visto che i problemi arrivano in città. Teoricamente i piani di bacino sono un ottimo strumento ma non si fa abbastanza. Dovremmo piuttosto adeguare gli studi, è importante pensare a come sarà il territorio fra trent’anni, pensare alle precipitazioni future che saranno, ormai è acclarato, sempre più spesso di forte intensità. Infine bisogna incentivare e formare i giovani che tornano all’agricoltura, anche sfruttando i fondi europei.

Intanto la Legge di Stabilità finanzia la prevenzione con 180 milioni di euro in tre anni.
Questi fondi sono briciole. Basti pensare a quanto costano opere come lo scolmatore. Servono invece interventi meno eclatanti e più diffusi, forse i 180 milioni basterebbero solo per conoscere il territorio italiano. Ci vuole poi un monitoraggio continuo. Dobbiamo razionalizzare tutto perché di suolo ne abbiamo consumato tanto. Anche in regioni come la Liguria, avara di suoli, ci sono spazi che possono essere recuperati senza costruire altro.
 


(Intervista pubblicata sul numero di dicembre 2013 de La Nuova Ecologia)