15 agosto 2012

Mare, dove l'acqua è più blu


Riscoprire le tecniche della pesca tradizionale, valorizzare gli ambienti dunali. Abbattere le costruzioni abusive. Storie di un altro mare



Pesca selvaggia, trasporti pericolosi, trivellazioni, cattiva depurazione, erosione costiera, cementificazione, riscaldamento globale. Sono i sette “vizi capitali” che affliggono i mari del Belpaese, fenomeni che derivano per intero dalle attività umane. Proprio all’inizio di un’estate inevitabilmente segnata dalla memoria di una tragedia, quella della Concordia, le cui conseguenze non sono ancora state chiarite fino in fondo. Ma esiste una maniera per cambiare rotta nella tutela delle acque costiere? Le esperienze che abbiamo raccolto lo dimostrano: «Lungo lo Stivale non mancano le buone pratiche di gestione degli ecosistemi marini, dal turismo a impatto zero alla pesca sostenibile, dalla valorizzazione della biodiersità alla riqualificazione di aree sottratte al cemento. Quello che manca è un progetto complessivo che le adotti su larga scala e le trasformi in politiche» spiega Sebastiano Venneri, responsabile mare di Legambiente. Vediamo allora in che modo amministratori lungimiranti, gestori di aree protette e gruppi di volontari stanno portando in salvo il nostro mare.


www.parcodunecostiere.org
RETI DI BIODIVERSITA'
Nel Parco regionale delle dune costiere da Torre Canne a Torre San Leonardo, in provincia di Brindisi, un progetto di conservazione crea sviluppo e recupera le antiche tecniche di pesca. Qui, negli spazi retrodunali della zona umida del fiume Morelli, è stata infatti reintrodotta l’acquacoltura con metodo interamente biologico. «Per avere una protezione maggiore dell’ambiente – spiega Maria Franca Mangano, biologa marina che lavora al progetto – è stato incentivato il sistema di pesca tradizionale tipica della zona, dandola in gestione ai discendenti della famiglia che la praticava vent’anni fa». Come? Innanzitutto i capitoni, le femmine di anguilla gravide e pronte a partire per il mar dei Sargassi per riprodursi, una volta pescati vengono rilasciati. Poi gli animali si nutrono di ciò che offre l’ambiente e non c’è inserimento di nuovi soggetti provenienti da altri ambienti. Infine, l’ultima chiusa collegata al mare è aperta, lasciando liberi gli animali di entrare e uscire. In pratica più che un allevamento si tratta di un prelievo programmato di anguille e cefali, effettuato solo a dicembre facendo ricorso all’impiego di nasse e tramagli. La pesca tradizionale, quindi, come rimedio al progressivo impoverimento degli stock ittici e strumento di conservazione degli ecosistemi marini, strategia presentata il 23 giugno scorso alla Fiera internazionale della pesca in programma ad Ancona durante il convegno “Un’altra pesca è possibile. Buone pratiche di pesca costiera artigianale, trasformazione del prodotto e commercializzazione”, a cura di Legambiente, Ocean2012, Wwf.



SCHELETRO SPARITO
In Liguria, invece, una collina sventrata dal cemento diventa un sentiero aperto a tutti. A Palmaria, infatti, lo “scheletrone”, l’ecomostro che per quarant’anni ha deturpato il colpo d’occhio da Porto Venere, è stato abbattuto tre anni fa e il bello è che al suo posto non è stato realizzato niente. C’è solo un percorso pedonale “adottato” dagli studenti del plesso scolastico che ora lo abbelliranno con mattonelle di ceramica. «Il taglio del nastro del percorso rappresenta la rivincita della natura – commenta il sindaco di Porto Venere Massimo Nardini – Stiamo lavorando affinché Palmaria diventi un piccolo modello di sviluppo sostenibile». Un cambio di rotta notevole, che premia anche chi si è battuto per anni affinché venisse rimosso il residence. «La vicenda dello scheletrone dell’isola di Palmaria – spiega Paolo Varrella, presidente del locale circolo di Legambiente che ha portato avanti una battaglia ventennale – è il frutto della pessima pianificazione del territorio, visto che solo gli ultimi due piani erano abusivi ma il resto dell’edificio era stato in un primo tempo autorizzato. Ciò dimostra quanto siano superficiali e spesso frutto di logiche clientelari gli strumenti urbanistici, a maggior ragione in aree così sensibili. Per fortuna – conclude Varrella – adesso lo spazio è pubblico, aperto a tutti e fruibile anche dalle persone diversamente abili».

A CINQUE VELE
Il Comune di Melendugno (Le), dopo decenni di edilizia pesante sulla zona costiera, ha adottato politiche di recupero del patrimonio marino, di quello storico con interventi di salvaguardia dell’area archeologica di Roca Vecchia, della Grotta della Poesia e di quella di San Cristoforo. «Fiore all’occhiello di questa inversione di tendenza – commenta Maurizio Cisternino, assessore all’Ambiente di Melendugno – è il recupero del canale Brunese e la collaborazione con l’Acquedotto Pugliese e la Regione Puglia per il recupero delle acque reflue in bacini fitodepurativi». Non a caso sul litorale di Melendugno nidifica la specie di tartaruga Caretta caretta e il comune salentino ha conquistato, quest’anno per la prima volta, le Cinque vele che Legambiente e Touring club assegnano alle località costiere amiche dell’ambiente. Fra queste, molte si trovano in Sardegna, dove le amministrazioni comunali sono sempre più attente a chiudere il ciclo dei rifiuti e delle acque reflue. Come a Villasimius (Ca), altro comune sardo “a cinque vele”, dove si va oltre la protezione del sistema dunale raggiungendo percentuali altissime di differenziata e la gestione delle acque reflue prevede anche il riutilizzo.

DUNE PREZIOSE
In Campania, un gruppo di volontari è impegnato nell’Oasi dunale diPaestum per contrastare l’erosione costiera ed evitare l’installazione di dispendiosi “pennelli” a mare, per bloccare l’abusivismo e restituire lo sbocco sul Tirreno alla celebre area archeologica. «Dopo la Seconda guerra mondiale e la bonifica della piana – racconta Lucio Capo, direttore dell’Oasi dunale – è stata creata una pineta per proteggere i terreni agricoli dalla salsedine marina, perdendo così il rapporto della città con il mare. L’Oasi vuol recuperare questo legame e creare un parco archeologico e naturale diffuso. Non è un caso se negli ultimi dieci anni la duna è ricresciuta di 3-4 metri e l’erosione costiera è stata bloccata, mentre a 500 metri da qui, dove c’è il cemento, l’erosione avanza». Il chilometro di dune protetto dai volontari è l’unico dei 10 ancora rimasti in Campania, un tempo erano 100, gli altri nove sono sottoposti ad attacchi continui: lidi e cemento. «Ci troviamo in un contesto molto antropizzato con un livello di abusivismo elevato – spiega Lucio Capo – Il 10% dell’area vincolata è stato cementificato nonostante ci sia il divieto di costruire a meno di un chilometro dalle mura dell’antica Paestum. Ecco perché se non ci fossimo stati noi – chiude con orgoglio Capo – la duna sarebbe scomparsa».

MODELLO TAVOLARA
Più protezione, più pesci, più pescato, più turismo per le immersioni subascquee, e dunque più soldi. La ricetta è semplice e l’area marina protetta di Tavolara Punta Coda Cavallo l’ha saputa preparare bene negli ultimi dieci anni. Intorno all’isola sarda, l’efficiente protezione della zona A, quella a protezione integrale, ha favorito il cosiddetto effetto riserva: gli stock ittici si sono rigenerati e pian piano hanno “traboccato” nelle zone limitrofe, dove sono consentite le immersioni subacque. «Intorno a Tavolara i subacquei fanno delle immersioni magnifiche, trovano cernie, saraghi, corvine e dentici – racconta Augusto Navone, direttore della riserva marina – E infatti ne arrivano tantissimi. Il turismo subacqueo da noi non risente della crisi. Solo nel 2011 il nostro territorio ha avuto 20 milioni di euro di indotto, dati certificati da un rigoroso studio, che sono frutto di 16.500 immersioni. Basti pensare che nel 1997 se ne facevano solo 2.500». Uno sviluppo del turismo che non reca danno all’ambiente. «Abbiamo un sistema di monitoraggio continuo sui siti d’immersione e tutti gli indicatori dicono che non risentono della fruizione – riprende il direttore Navone – D’altronde, abbiamo creato molto consenso fra gli operatori del settore intorno ai vincoli che ci siamo dati: mai più di cinque subacquei per guida e più di due imbarcazioni per punto d’immersione». L’ambiente marino quindi non viene sforzato, i pesci si rigenerano, i subacquei apprezzano e i pescatori gongolano. «Qui hanno dei coefficienti di resa fra i migliori di Italia, 23 chilogrammi per chilometro di attrezzo. Però – ricorda il direttore dell’area marina protetta – sono ammessi solo pescatori artigianali e professionisti residenti nei comuni consorziati, e operano con attrezzi selettivi che non fanno un gran prelievo». Altro che pesca selvaggia.



di Francesco Loiacono - Pubblicato su Nuova Ecologia, luglio-agosto 2012


#Ilva, immagini da Taranto (3 agosto 2012)

#Ilva, immagini dalla manifestazione dei sindacati del 3 agosto 2012. Il comitato cittadini e operai liberi e pensanti ha fatto irruzione in piazza della Vittoria per leggere il proprio comunicato. I sindacati hanno sospeso il comizio, ricominciato dopo l'uscita di scena del comitato.


operai in corteo / foto di Francesco Loiacono

il palco dei sindacati / foto di Francesco Loiacono

striscione del comitato cittadini e operai liberi e pensanti

l'irruzione del comitato sotto al palco dei sindacati: "la rovina dell'Italia siete voi"

il comitato raggiunge il palco
il comizio del comitato in piazza della Vittoria: oggi è l’anniversario della strage di Bologna, anche a Taranto c’è una strage in atto

la polizia presidia la piazza a protezione del palco mentre il comitato abbandona la piazza

il comizio dei sindacati. Camusso (Cgil) : gli investimenti che l’Ilva deve fare possono essere fatti a impianto aperto