29 settembre 2011

L'atomo nel Cantone

La Svizzera rinnega il piano energetico del 2007 e si prepara a spegnere le centrali nucleari a fine ciclo. La svolta punta su efficienza e rinnovabili. Perché conviene

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La Svizzera ha deciso di non prolungare la vita delle sue centrali nucleari e di cambiare sistema energetico. Sembra lontano il 2034, anno in cui sarà spenta l’ultima delle cinque centrali, quella di Leibstad, che adesso producono il 40% dell’elettricità. Ma Berna comincia a progettare un nuovo mix energetico, senza l’atomo e con più rinnovabili. E a cambiare radicalmente strada, visto che solo nel 2007 il Consiglio federale elvetico approvava una strategia energetica basata sulla costruzione di tre nuove centrali nucleari. Una decisione sulla quale i cittadini si sarebbero espressi con un referendum in programma nel 2013. Dopo il disastro alla centrale giapponese di Fukushima il governo svizzero ha pensato bene di anticipare i tempi e di non aspettare la probabile bocciatura del referendum. Guidato dal ministro dell’Ambiente, Doris Leuthard, l’esecutivo ha così deciso di disattivare gli impianti a fine vita. La decisione ha l’approvazione del Consiglio nazionale, la loro Camera dei deputati. Nel secondo ramo del Parlamento, il Consiglio degli Stati, si discute invece su una possibile riapertura al nucleare di quarta generazione.

Roger Nordmann, consigliere nazionale
«Anche se si attende la votazione definitiva del Consiglio di Stato, e a fine ottobre ci saranno le elezioni per il nuovo governo, la strada per l’uscita dal nucleare è ormai tracciata». Fuga ogni dubbio il consigliere nazionale del partito socialista, Roger Nordmann, che auspica e promuove un futuro energetico rinnovabile. Nordmann, autore del libro Senza nucleare e senza petrolio nell’avvenire, che nella versione francese è titolato Liberare la Svizzera dalle energie fossili, crede che entro il 2050 la Svizzera possa raggiungere il 100% di energia rinnovabile. «Per l’elettricità possiamo farlo in 15 anni, sempre se c’è la volontà. Per fare a meno dei combustibili fossili è necessario un ulteriore progresso tecnologico. Le centrali nucleari, invece, andrebbero spente entro il 2025, senza superare il limite di 40 anni di servizio. Quella di Muhleberg, poi, andrebbe chiusa subito perché non soddisfa criteri adeguati di sicurezza». La strada è sicuramente lunga ma la volontà di percorrerla non manca.

«Stiamo per dire addio al nucleare e benvenute alle rinnovabili, entreremo presto nel mercato europeo dell’energia – annuncia Lukas Gutzwiller dell’ufficio federale dell’Energia – Stiamo introducendo delle misure di efficienza che ci porteranno a una diminuzione dei consumi energetici del 20-30%. Nei servizi, ad esempio, possiamo risparmiare facilmente il 30% di elettricità. Le attuali prospettive mostrano che un abbandono graduale è possibile a livello tecnico e sostenibile sul piano economico. I prezzi per l’energia elettrica sono destinati a salire, e questo – conclude Gutzwiller – attenuerà le ripercussioni del nostro abbandono dell’atomo». L’ufficio federale stima che la riconversione energetica e le misure per la contrazione della domanda impegneranno risorse tra lo 0,4 e lo 0,7% del Pil.

Uno sforzo che non fa paura. «La rinuncia al nucleare è digeribile, e a medio periodo sarà conveniente – afferma Bruno Oberle, direttore dell’ufficio federale dell’Ambiente – L’uscita dall’atomo è un’etichetta, in realtà vogliamo fare una svolta verso una nuova fase di produzione energetica, è giusto quindi impegnare queste risorse. D’altronde gli investimenti nella gestione ambientale ammontano a circa 10 miliardi di franchi l’anno, il 2% del Pil». Il punto di forza di questa svolta energetica sarà la ricerca: quella ambientale costa allo Stato mezzo miliardo di franchi all’anno, su un totale di 5 miliardi. «Vuol dire – riprende il direttore Oberle – che il 10% è investito in ricerca ambientale: punte d’eccellenza sono i centri di ricerca sul clima di Berna e Zurigo, senza contare che l’Ipcc ha sede a Ginevra. Il nostro slogan è: la politica ambientale è gestione delle risorse naturali, quindi è gestione economica». L’uscita dal nucleare, insomma, è una questione di conti. Conviene e si fa.

PS La camera alta del parlamento svizzero ha dato l'ok allo stop alla costruzione di nuove centrali nucleari introducendo misure che incoraggiano le rinnovabili e la continuazione della ricerca sul nucleare.

Pubblicato su Nuova Ecologia

6 settembre 2011

Armi chimiche, segreti esplosivi


di Francesco Loiacono
Le armi chimiche prodotte durante il fascismo minacciano gli ecosistemi del Belpaese. Un arsenale inquinante sulla cui esistenza ha rotto il silenzio Gianluca Di Feo con il libro 'Veleni di Stato'


L'editoriale di G. Di Feo: Misteri di guerra
L'esperto: Salviamo i nostri fondali

Avvelenano da decenni i nostri mari, i laghi, le falde idriche e i terreni. Dopo aver seminato terrore durante il fascismo in Libia, Somalia ed Etiopia. Sono l’iprite, il fosgene, l’arsenico e il cianuro contenuti nelle armi chimiche prodotte dall’industria bellica italiana dagli anni ‘20 fino alla Seconda guerra mondiale. Un arsenale inquinante sulla cui esistenza, due anni fa, ha rotto il silenzio Gianluca Di Feo con il libro Veleni di Stato. Il giornalista ha portato alla luce quanto contenuto negli archivi militari inglesi, tedeschi e americani: lungo le coste italiane, durante e dopo la guerra, sono state affondate tonnellate di armi a caricamento chimico. Per non parlare dell’eredità tossica dei terreni intorno alle industrie e ai depositi bellici sparsi sulle Penisola: la Chemical city sul lago di Vico, l’ex Saronio di Melegnano, a pochi passi da Milano, e a Colleferro, per citarne alcuni. Una battaglia per la sicurezza ambientale, insomma, di cui si parla da poco. E che vale la pena di rilanciare.

IN CERCA DI VERITA’
«A Vico nel 1996 un ciclista fu investito da una nube tossica e ricoverato per problemi respiratori. Le autorità militari dissero che stavano bonificando un laboratorio di ricerca chimica della Seconda guerra mondiale – racconta Fabrizio Giometti, presidente di Legambiente Vico – Quindi sapevamo già della presenza di questi veleni, ma in altre parti d’Italia nessuno lo sospettava. Il libro di Di Feo ha dato impulso alla nascita del Coordinamento nazionale bonifica armi chimiche per informare i cittadini e chiedere alle istituzioni la bonifica dei siti inquinati da armi chimiche». Il caso è arrivato anche in Parlamento: a maggio i senatori Roberto Della Seta e Francesco Ferrante hanno rivolto un’interrogazione ai ministri della Difesa e dell’Ambiente per chiedere l’istituzione di una commissione straordinaria per completare le bonifiche con uno stanziamento speciale di uomini e fondi. «Per noi non è una novità trovare un ordigno durante la pesca o un’immersione – dice Paolo De Gennaro, sommozzatore e volontario di Legambiente a Molfetta, durante il nostro sopralluogo nelle acque pugliesi del 16 luglio (vedi il filmato online) – Un pescatore tirando l’ancora ha portato a galla non solo una bomba ma anche il carrello di una mina». Nelle acque della città pugliese le bombe sono arrivate dopo il secondo conflitto mondiale. Alcune provengono dalla bonifica del porto di Bari, dove il 2 dicembre 1943 i tedeschi bombardarono le navi degli Alleati. Nell’occasione fu colpita la nave inglese “John Harvey” con un carico di iprite, l’incidente provocò un migliaio di morti. In seguito gli ordigni rimasti nelle stive affondate furono rimossi da chiatte e pescherecci incaricati di buttarli al largo. Molte però furono smaltite sotto costa: i pescatori, pagati a cottimo, preferivano furbescamente fare meno tragitto e più viaggi. Nel 1999 uno studio dell’Icram ha rilevato nelle acque del basso Adriatico undici ordigni all’iprite corrosi e mutazioni genetiche nei pesci che vivono sui fondali. Le convenzioni internazionali vietano il dumping in mare di ordigni bellici, ma fino agli anni ‘70 la pratica era diffusa e si calcola che la quantità delle armi chimiche affondate nei fondali di tutto il mondo, soprattutto nel mar Baltico, nel mare del Nord, nel mar del Giappone e nell’oceano Atlantico, sia tre volte la quantità custodita negli arsenali di Stati Uniti ed ex Unione Sovietica messi insieme.

MINE FRA GLI SCOGLI
«Cè voluto un incidente di percorso per far partire la bonifica nelle acque di Molfetta: il ritrovamento degli ordigni durante i lavori di dragaggio per la realizzazione del porto commerciale – denuncia Matteo D’Ingeo, membro del Coordinamento nazionale bonifica armi chimiche – Purtroppo le modalità con cui le autorità cittadine stanno portando avanti questa vicenda non sono trasparenti. Ad esempio, secondo l’Arpa sui fondali a pochi metri dalla località Torre Gavetone ci sarebbero quattro coordinate da vietare alla balneazione per la presenza di mine cementificate. Due di queste ricadono nel limitrofo comune di Giovinazzo, che ha emesso l’ordinanza di divieto di balneazione, mentre il sindaco di Molfetta no. E la spiaggia è sempre piena. Sembra ci sia la volontà di nascondere le cose per non creare allarme. Per questo abbiamo presentato un esposto al prefetto di Bari e alla procura di Trani».
Intanto sulla darsena in costruzione campeggiano due grossi cassoni azzurri con una lettera “R”, che sta per “Rifiuti”. «Lì probabilmente sono stoccati provvisoriamente i prodotti della bonifica del porto – riprende D’Ingeo – ogni tanto i pescatori che passano vedono venir fuori del fumo bianco e sentono nell’aria un odore acre che dà fastidio alle mucose e crea problemi respiratori». A Pesaro intanto è cominciata a luglio la prima campagna d’analisi per individuare la presenza di arsenico nei punti in cui sarebbero state inabissate delle bombe, secondo quanto indica un documento degli anni ‘60 del governo Tambroni. Sul Tirreno la situazione è ancora più oscura. Gli arsenali di armi chimiche affondati fra il ‘45 e il ‘46 dagli americani andrebbero ricercati, secondo gli esperti dell’Istituto nautico di Forio (Ischia), in un triangolo che ha per vertici Bagnoli, Ischia e Capri, dove Goletta Verde è approdata le scorse settimane per chiedere analisi accurate. I rapporti militari degli americani Brankovitz e Aberdeen riferiscono che nel golfo di Napoli è avvenuto l’affondamento di bombe contenenti iprite, fosgene, arsenico, lewisite, cloruro di cianuro e cianuro idrato. Dalle acque di mare a quelle dei laghi i veleni continuano a inquinare l’Italia. «Nel marzo 2010 ho analizzato i sedimenti del lago di Vico – racconta Giuseppe Nascetti, professore di Ecologia all’università della Tuscia – Nella parte più profonda c’è quasi un grammo di arsenico per kg, ma per dire che la contaminazione proviene dal centro chimico militare servono analisi come quella al carbonio 14. Inoltre dovremmo capire se l’arsenico resta nei sedimenti o va in circolo nell’acqua. Ma sono studi costosi e c’è bisogno di un finanziamento». Il ministro della Difesa La Russa, rispondendo a un’interrogazione del deputato Pd Ermete Realacci sull’emergenza a Vico, esclude la «correlazione tra l’inquinamento del sito militare e quello del lago, in quanto il superamento del valore soglia per l’arsenico di poche parti per milione presso il sito militare non può giustificare l’alta concentrazione rinvenuta nel sedimento del lago». E rassicura che lo stato ambientale del bacino è «all’attenzione del governo e degli enti locali», tanto che già nel ‘94 era stata condotta un’indagine di superficie. Ad oggi però la zona militare resta quasi incustodita, come denunciano le foto pubblicate sul sito del Coordinamento nazionale bonifiche armi chimiche (www.velenidistato.it).

SMINAMENTO LENTO
Ma esiste un programma nazionale per le bonifiche da armi chimiche? A tale richiesta il ministero risponde inviandoci uno stralcio del Libro Bianco del 2002. Non è molto ma nel documento si legge che erano in campo, a quella data, servizi e convenzioni per la bonifica di ordigni esplosivi dal territorio nazionale e internazionale, la bonifica da agenti chimici a cura dello Stabilimento militare dei materiali di difesa Nbc (nucleari, batteriologici e chimici) e la citata analisi dell’Icram nel basso Adriatico. Per queste operazioni, si legge, il ministero si avvale di ditte civili specializzate che operano col supporto delle forze armate. Ultimamente però queste imprese lavorano a rilento a causa della crisi che blocca i cantieri civili. La maggior parte delle bonifiche, infatti, si realizza durante la costruzione di opere pubbliche. Inoltre è stato cancellato il quadro normativo in cui operano: «Nell’ambito di una riorganizzazione normativa del 2010, il ministero ha abrogato con un sistema molto dubbio leggi e decreti dal 1940 al 1948 – lamenta Vincenzo Bellei, presidente di Assobon, associazione che riunisce 50 ditte specializzate – Fra queste c’era la 320 del ‘46 che regolamentava le bonifiche belliche. Nessuno si è reso conto di questo errore. A seguito del nostro reclamo è stato emanato un regolamento che riesume la 320. Quadro normativo a parte, per il lago di Vico ci sono i progetti delle bonifiche ma non i soldi per farle partire». Così i veleni della seconda guerra mondiale continuano a inquinare terre e mare. E a questi si aggiungono quelli dei conflitti dei giorni nostri. «Durante la guerra in Kosovo – ricorda Massimiliano Piscitelli del comitato scientifico di Legambiente Puglia – gli aerei Nato sganciavano il carico inesploso in mare. Ma nonostante la Marina militare abbia perimetrato queste aree, le bonifiche non sono mai partite. Oggi c’è la guerra in Libia: dove vengono sganciate le bombe dei caccia che rientrano a Trapani e Gioia del Colle? Saranno oggetto di bonifica?». Un interrogativo che resta sul terreno, insieme ai veleni.

SOSTANZE KILLER
Arsenico. Tossico e cancerogeno: anche in piccole quantità causa l’irritazione dello stomaco, intestino o dei polmoni, fino ad essere letale.
Iprite. Liquido vescicante (in fase solida sui fondali), irritante per organi visivi, vie respiratorie (fino alla congestione) e pelle.
Lewsite. Liquido vescicante: penetra facilmente causando danni alla cute, alle vie respiratorie e agli occhi.
Fosgene e Difosgene. Gas asfissianti che hanno effetto immediato fino al soffocamento.
Acido clorosolfonico. Liquido ustionante: è esplosivo a contatto con l’acqua.
Cloropicirina. Liquido oleoso soffocante: causa soffocamento e irritazione per gli organi visivi.

Pubblicato su La Nuova Ecologia di settembre 2011

Veleni nel porto di Molfetta

Sopralluogo nel bacino di Molfetta (Ba), dove è in corso una bonifica da residuati bellici della Seconda guerra mondiale, insieme a Legambiente Molfetta e a Matteo D'Ingeo del Coordinamento nazionale bonifica armi chimiche (www.velenidistato.it)

Misteri di guerra


di Gianluca Di Feo *

Solo in Italia poteva accadere. Abbiamo custodito per quasi settant’anni la più grande discarica di armi chimiche d’Europa e forse del mondo. Abbiamo permesso che questi ordigni mostruosi si disperdessero nell’ambiente: negli angoli più belli dei nostri mari, dei nostri laghi, delle nostre periferie e persino nel cuore delle nostre città. Lì il segreto di Stato figlio della guerra fredda, e soprattutto l’ignavia di una classe politica incapace di tutelare i cittadini, hanno lasciato che si seppellisse l’eredità della follia bellica più incredibile: migliaia di tonnellate di gas velenosi – testate all’iprite, all’arsenico o a base di altre sostanze micidiali – progettati per mantenere intatta la loro letalità nei decenni. Un incubo fortissimamente voluto dal regime fascista che riempì l’Italia di laboratori e fabbriche per creare il più grande arsenale chimico del mondo. Impianti spesso cancellati anche dalla memoria – come quello di Foggia o di Pavullo (Modena) – o trasformati in altre fucine di malattie – come a Massa, Melegnano o Pieve Vergonte – senza mai ripulire i resti dell’attività militare. Durante il conflitto quelle bombe non vennero mai usate per il terrore di innescare una appresaglia dalle conseguenze imprevedibili. Per questo tra il 1943 e il 1948 i veleni prodotti in Italia e le scorte trasferite nella Penisola dagli altri eserciti finirono in mare o nel terreno: gli americani buttarono nei fondali di Tirreno e Adriatico centinaia di migliaia di bombe e proiettili con ogive chimiche. Non solo. Nel segreto assoluto le forze armate italiane hanno mantenuto fino agli anni Ottanta centri di ricerca e depositi di questi ordigni vietati da tutti gli accordi internazionali. 
 
Quando nel 2004 ho cominciato a ricostruire la vera storia delle armi chimiche in Italia sono rimasto sconvolto da quello che emergeva dai dossier top secret britannici, conservati nei National archives di Londra. E dopo la pubblicazione delle mie ricerche nel volume Veleni di Stato molte altre segnalazioni scioccanti si sono aggiunte: come i casi inspiegabili di tumore negli uffici dell’università La Sapienza, installati lì dove un tempo si testavano i gas bellici. In tutta Italia adesso una rete di associazioni vuole la verità: sapere che prezzo stanno pagando per la follia dei signori della guerra. È ora che tutti i segreti cadano. 

* autore del libro “Veleni di Stato”
Questo articolo è stato pubblicato su La Nuova Ecologia di settembre 2011

Arsenico alle porte di Milano

Intorno all’ex Saronio di Melegnano restano alte le concentrazioni dell’agente tossico

Lo storico Angelo Del Boca pubblica nel 2007 il libro I gas di Mussolini. Documenta così l’uso massiccio di gas bellici effettuato dall’esercito italiano in Eritrea e Somalia. Fra le numerose ditte produttrici citate da Del Boca figura la Saronio di Melegnano, a pochi passi da Milano. L’azienda fu aperta nel 1936 e fin da subito i suoi prodotti rifornivano l’esercito. Nel 1940 produceva già Fenilcloroarsina (Lewisite), difenilcloroarsina, cloroacetofenone, cloropicrina, difosgene, cloro liquido, acido formico. Nel 1943, per poco più di un anno, le produzioni belliche furono trasferite in un nuovo stabilimento nella frazione di Rozza, nel confinante comune di Cerro al Lambro. L’eredità lasciata dalle due ditte è pesante e fa sentire ancora oggi, a quarant’anni dalla loro chiusura, i suoi effetti. Una recente indagine dell’Asl Milano 2 ha dimostrato che la frequenza dei tumori alla vescica fra la popolazione di Melegnano è circa doppia rispetto a quella che si riscontra nei comuni vicini. La causa va ricercata nella massiccia presenza nella falda e in alcuni pozzi usati a scopo agricolo di amine aromatiche, materia prima per la produzione dei coloranti. Nella falda si trovano anche arsenico, derivato dalle produzioni di gas bellici, e in particolare la Lewisite. Questi dati sono disponibili solo per il terreno di Melegnano, nessuna analisi è stata compiuta su quelli di Cerro al Lambro, di proprietà dell’esercito e utilizzati a lungo come perimetro di esercitazioni militari.
(Edoardo Bai, responsabile scientifico Legambiente Lombardia)
Pubblicato su La Nuova Ecologia di settembre 2011

Salviamo i nostri fondali

Intervista a Ezio Amato, ex docente di oceanografia chimica all’Universita’ di Viterbo ed ex ricercatore dell’allora Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (Icram), oggi confluito nell’ISPRA.  Dal 1987 guida ricerche sulle “sorgenti d’inquinamento sommerse” quali relitti e residuati bellici affondati in mare


Per anni Ezio Amato, con l’Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (Icram), ha guidato gruppi di ricerca impegnati nello studio degli effetti che i veleni rilasciati da ordigni convenzionali e a “caricamento speciale” affondati in tutti i mari e oceani del pianeta hanno prodotto e producono sulla fauna che popola i fondali, in particolare nel basso Adriatico: «Le specie stanziali, quelle che vivono in stretta relazione con i sedimenti dove sono state affondate le bombe hanno subito danni genetici oltre che somatici». Oggi lavora all’Onu per il restauro dei danni ambientali occorsi in Kuwait con l’invasione irachena del 1991 ed è convinto che in Italia l’attenzione politica per gli ambienti marini e in particolare per i fondali sia del tutto insufficiente. «Lo dimostra il caso della superpetroliera Haven affondata nelle acque del ponente ligure el ‘91: il governo Berlusconi ha destinato ad altro i fondi stanziati nel 2000 per studiare come bonificare le migliaia di tonnellate di catrame, mutagene e teratogene, che così da venti anni giacciono in profondita».

Quando sono cominciati gli studi nell’Adriatico?
Siamo partiti con una ricerca finanziata dal ministero dell’Ambiente durante la guerra nell’ex Jugoslavia perché oltre 200 pescatori, tra il 1946 e il 1996, hanno dovuto far ricorso a cure ospedaliere dopo essere venuti in contatto accidentale con aggressivi chimici rilasciati da residuati bellici affondati. Abbiamo realizzato una mappa che ci ha permesso di individuare nel basso Adriatico alcune aree inquinate da ingenti quantità di ordigni: munizionamento chimico affondato dopo la Seconda guerra
mondiale, in parte o completamente corroso. L’iprite, uno dei più di venti aggressivi chimici individuati nelle bombe affondate, era ben riconoscibile adagiata sul fondale accanto a pesci e invertebrati. Abbiamo prelevato campioni di sedimento e condotto analisi anche su due specie ittiche stanziali, il grongo e lo scorfano di fondale.

Che cosa avete scoperto?
Molti tra gli esemplari di pesce esaminati presentavano lesioni cutanee, danni al fegato, alle branchie e genetici. L’iprite è un distruttore del Dna, non entra tal quale nella catena alimentare perché non è bioaccumulabile ma è molto persistente in ambiente marino e provoca effetti nocivi per contatto e attraverso la respirazione branchiale. Anche l’arsenico è tra gli aggressivi chimici presenti in queste armi e ne abbiamo trovato tracce significative nei sedimenti analizzati. Quanto al Mediterraneo, i dati reperiti ci hanno mostrato uno scenario inquietante visto che tutti i paesi rivieraschi hanno affondato migliaia di tonnellate di residuati bellici e materiale militare obsoleto.

Si fa abbastanza per bonificare l’Adriatico?
Per le aree portuali pugliesi il ministero dell’Ambiente ha stanziato pochi anni fa 5 milioni di euro ma si sta lavorando solo nel porto di Molfetta. Queste bonifiche sono molto costose, impegnative e pericolose. Bisogna stabilire delle priorità, e le aree portuali devono essere considerate tali. 

(Francesco Loiacono)
Intervista pubblicata su La Nuova Ecologia di settembre 2011