6 settembre 2011

Salviamo i nostri fondali

Intervista a Ezio Amato, ex docente di oceanografia chimica all’Universita’ di Viterbo ed ex ricercatore dell’allora Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (Icram), oggi confluito nell’ISPRA.  Dal 1987 guida ricerche sulle “sorgenti d’inquinamento sommerse” quali relitti e residuati bellici affondati in mare


Per anni Ezio Amato, con l’Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (Icram), ha guidato gruppi di ricerca impegnati nello studio degli effetti che i veleni rilasciati da ordigni convenzionali e a “caricamento speciale” affondati in tutti i mari e oceani del pianeta hanno prodotto e producono sulla fauna che popola i fondali, in particolare nel basso Adriatico: «Le specie stanziali, quelle che vivono in stretta relazione con i sedimenti dove sono state affondate le bombe hanno subito danni genetici oltre che somatici». Oggi lavora all’Onu per il restauro dei danni ambientali occorsi in Kuwait con l’invasione irachena del 1991 ed è convinto che in Italia l’attenzione politica per gli ambienti marini e in particolare per i fondali sia del tutto insufficiente. «Lo dimostra il caso della superpetroliera Haven affondata nelle acque del ponente ligure el ‘91: il governo Berlusconi ha destinato ad altro i fondi stanziati nel 2000 per studiare come bonificare le migliaia di tonnellate di catrame, mutagene e teratogene, che così da venti anni giacciono in profondita».

Quando sono cominciati gli studi nell’Adriatico?
Siamo partiti con una ricerca finanziata dal ministero dell’Ambiente durante la guerra nell’ex Jugoslavia perché oltre 200 pescatori, tra il 1946 e il 1996, hanno dovuto far ricorso a cure ospedaliere dopo essere venuti in contatto accidentale con aggressivi chimici rilasciati da residuati bellici affondati. Abbiamo realizzato una mappa che ci ha permesso di individuare nel basso Adriatico alcune aree inquinate da ingenti quantità di ordigni: munizionamento chimico affondato dopo la Seconda guerra
mondiale, in parte o completamente corroso. L’iprite, uno dei più di venti aggressivi chimici individuati nelle bombe affondate, era ben riconoscibile adagiata sul fondale accanto a pesci e invertebrati. Abbiamo prelevato campioni di sedimento e condotto analisi anche su due specie ittiche stanziali, il grongo e lo scorfano di fondale.

Che cosa avete scoperto?
Molti tra gli esemplari di pesce esaminati presentavano lesioni cutanee, danni al fegato, alle branchie e genetici. L’iprite è un distruttore del Dna, non entra tal quale nella catena alimentare perché non è bioaccumulabile ma è molto persistente in ambiente marino e provoca effetti nocivi per contatto e attraverso la respirazione branchiale. Anche l’arsenico è tra gli aggressivi chimici presenti in queste armi e ne abbiamo trovato tracce significative nei sedimenti analizzati. Quanto al Mediterraneo, i dati reperiti ci hanno mostrato uno scenario inquietante visto che tutti i paesi rivieraschi hanno affondato migliaia di tonnellate di residuati bellici e materiale militare obsoleto.

Si fa abbastanza per bonificare l’Adriatico?
Per le aree portuali pugliesi il ministero dell’Ambiente ha stanziato pochi anni fa 5 milioni di euro ma si sta lavorando solo nel porto di Molfetta. Queste bonifiche sono molto costose, impegnative e pericolose. Bisogna stabilire delle priorità, e le aree portuali devono essere considerate tali. 

(Francesco Loiacono)
Intervista pubblicata su La Nuova Ecologia di settembre 2011

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