27 novembre 2010

Un ponte per Mitrovica, reportage del 2003

Check point sul ponte del fiume Ibar
di Francesco Loiacono

Il ponte sul fiume Ibar unisce la parte nord, a maggioranza serba, da quella sud a maggioranza albanese. Mitrovica è il simbolo delle divisioni kossovare (agosto 2003) - Un circo per la pace



A nord i serbi, a sud gli albanesi, in mezzo il ponte: un braccio di cemento che non avvicina ma allontana genti diverse ed accresce le diffidenze di una guerra. A Mitrovica il ponte sul fiume Ibar è il simbolo della divisione interetnica del Kossovo. Dopo l’attacco della Nato nel 1999 alla Serbia di Milosevic, colpevole di massacri e sfollamenti contro gli albanesi kosovari, le divisioni fra le etnie sono ancora più marcate. Nexmedin Spahiu, direttore del canale televisivo di Mitrovica, ricorda: «prima della guerra i quartieri erano a presenza mista: serbi, albanesi, rom e bosniaci vivevano fianco a fianco, di qua e di là del ponte». E aggiunge: «durante il conflitto i serbi incendiavano e distruggevano le case degli albanesi. Questi, dopo la guerra, non hanno reso lo stesso servizio ai serbi ma astutamente ne hanno occupato le case,  fatto di Mitrovica sud una città albanese e lasciato ai serbi solo una parte a nord del fiume».

E così, venendo da sud la sensazione è di essere in Albania, in un paese mediterraneo. Grande fermento al mercato sovrastato dall’alto e sottile minareto della moschea. Il muezzin quasi non si sente, coperto dal traffico delle automobili, dal frastuono di cantieri che costruiscono una nuova città e dal rumore dei generatori elettrici: la corrente se ne va spesso e all’improvviso, come l’acqua. Le attività sono vive, tutti disponibili ad aiutarti. Urrdho è l’espressione con cui ti rispondono gli abitanti a Mitrovica sud: “mi dica”, oppure più cordialmente “a disposizione”.

A sud ci sono gli uffici dell’Unmik, la missione Onu per il Kossovo, e tutte le sedi delle Ong internazionali. I militari, diecimila su poco più di centomila abitanti, sono ovunque: ricordano che c’è stata la guerra e che la vita è sospesa in attesa del futuro. Le camionette verdi e i blindati si incrociano per le strade come le mosche nei ristoranti: sul fianco portano la scritta KFOR, la forza multinazionale di stanza in Kossovo, a bordo ragazzi che vengono dalla Francia o dal Marocco. Anche i furgoni della polizia o i fuoristrada bianchi con la scritta NU si mescolano al traffico e a volte passa una camionetta dei carabinieri italiani, non sono molti, il nostro contingente si trova a Pec, anzi Peja. A sud del ponte è meglio chiamare cose e città in albanese. I militari e gli internazionali delle ong formano una comunità di privilegiati. Spendono le loro paghe nei ristoranti e nei locali, affittano gli appartamenti migliori e drogano l’economia. Si paga tutto in euro: i prezzi sono economici per gli internazionali, non per la gente del posto.

Monumento ai minatori
Quando gli uomini in divisa e le magliette colorate con varie sigle sul petto andranno via, vorrà dire che il Kossovo potrà camminare da solo per la sua strada, ma con quali soldi? Su che si reggerebbe la sua economia ormai viziata? Poco importa, tanto camionette verdi e fuoristrada bianchi rimarranno a lungo. E l’indipendenza non pare possibile. Il direttore Spahiu confida la sua speranza: «l’unico futuro sta nell’ingresso nell’Unione Europea di tutti gli stati balcanici, compresa la Serbia. Solo un tale passo potrà illuminare l’avvenire del Kossovo e portare stabilità nella regione, ma è difficile – conclude Spahiu – che i Balcani siano pronti per un ulteriore allargamento ad est dell’Unione ipotizzabile per il 2010-2012». Gli uomini passano le ore al bar. Vehebj è il proprietario di uno dei tanti di Mitrovica sud, presenta il figlio che si chiama Du Lot, in albanese vuol dire “due lacrime”. «Ha tre anni, è nato dopo la guerra. Perché due lacrime? Una è per i bambini morti durante il tempo della violenza ed una perché non può andare dall’altra parte del fiume a vedere cosa c’è».
Per arrivare al nord bisogna raggiungere il ponte attraversando la confidence zone, l’area in cui l’accesso è libero e sicuro per tutti ma che in realtà è un deserto pieno di militari e furgoni delle Nazioni Unite.All’imbocco del ponte il check point. Gli internazionali passano senza problemi. I locali che vogliono andare al di là sono pochi, i più non ci provano neanche. Per loro è un muro fatto di paura e diffidenza. Dopo che i francesi hanno riparato i danni della guerra alla struttura, i paramilitari albanesi e serbi hanno cominciato a sorvegliarlo. Sono i bridgewatchers: presenza segreta, impalpabile ma ancora oggi invadente. Conoscono gli spostamenti e la vita di chi passa il ponte, prendono le targhe delle macchine che vanno dall’altra parte. I taxisti per lavorare tranquilli le hanno tolte tutte, altri le levano quando passano.


Dopo il ponte la Serbia. A nord tutto è diverso. Le scritte cambiano e i palazzi pure. Sulla collina sopra la città il grande monumento ai minatori, nella zona ci sono zinco e piombo: al di là di Mitrovica c’è la Trepca, l’impianto minerario-metallurgico rimasto in disuso, bloccato dalle dispute sul futuro della regione. La parte serba si sviluppa lungo un viale in salita. E’ la strada che in sette ore porta a Belgrado, il polo d’attrazione dei pensieri giovanili, della vita spalle al ponte. Anche per pregare si va a nord: l’unica chiesa ortodossa di Mitrovica è rimasta a sud, nella parte albanese, quindi meglio andare a Svecan, più vicino al confine con la Serbia. Anche perché la vita dei serbi in città è quella di una minoranza. Si usa il dinaro e di notte alcuni ragazzi corrono con le macchine verso il check point: mostrano i muscoli e l’orgoglio di chi vive sulla difensiva, arroccato al proprio bastione.
Palazzo nella zona nord

Questa piccola isola serba in Kossovo è un cuneo che parte da Belgrado e si spinge fino al ponte, fino all’estremità nord del Kossovo albanese, alle centinaia di bandiere rosse con l’aquila nera. Un tempo a ridosso del fiume, a ovest del ponte, vivevano anche le famiglie rom nel bel quartiere di Roma Mahala. Ora se lo guardi dall’alto vedi solo macerie: gli albanesi l’hanno distrutto. Accusati di collaborazionismo con i serbi, adesso i rom vivono nei campi intorno a Mitrovica: piccole isole intorno alla città delle enclaves. Infatti nel nord a maggioranza serba ci sono anche i quartieri albanesi e bosniaci di Kodra Minatore e Bosnia Mahala (Piccola Bosnia). Oliver Ivanovic, rappresentante politico della comunità serba di Mitrovica e membro del parlamento kossovaro, mostra la mappa appesa nel suo ufficio e spiega: «Mitrovica nord, con la presenza di serbi, albanesi e bosniaci, è rimasta l’unica area realmente multientnica del Kossovo dopo la guerra. Per questo - incalza - la comunità internazionale dovrebbe inviare messaggi più forti agli albanesi per convincerli a considerare i serbi interlocutori importanti con cui costruire il futuro della regione. In questa direzione – conclude Ivanovic - leggo gli sforzi di Belgrado per uscire dal suo isolamento internazionale».

Intanto, chi vive in quest’area si trova nella condizione peggiore. Gli albanesi di Kodra Minatore, per andare a lavorare a sud, devono attraversare la parte serba sugli autobus scortati dai militari. Kodra è l’enclave albanese sulla collina sotto al monumento ai  minatori. Se da qui scendi verso l’area serba, i bambini ti seguono fino alla strada principale senza raggiungerla, fino alla “Serbia”. Se ti allontani si fermano, restano immobili. Intorno strade dove non possono giocare, al di là del ponte i bambini albanesi che non possono conoscere. La striscia di cemento sull’acqua è orizzontale ma la guardi come fosse un muro.

Nessun commento:

Posta un commento