7 ottobre 2011

Fronte del coke


Tredici centrali per quasi 40 milioni di tonnellate di CO2 l’anno. E altre rischiano di arrivare. Da Saline Joniche a Porto Tolle gli ambientalisti protestano contro il carbone
di Francesco Loiacono

Il nucleare, grazie alla schiacciante vittoria nei referendum di primavera, è andato finalmente in soffitta: rimane da gestire lo smantellamento delle centrali e lo stoccaggio delle scorie che ci lascia in eredità la controversa stagione dell’atomo tricolore. Ma sulla via della rinnovabili gli ostacoli non sono finiti. Anzi. All’orizzonte si prepara l’offensiva delle grandi lobby energetiche che puntano ad occupare il mercato investendo sulle fonti fossili. «In Italia l’alternativa al nucleare è il carbone» si era affrettato del resto a dichiarare subito dopo il 12 giugno l’amministratore delegato dell’Enel, Fulvio Conti, che prospetta per questa fonte una crescita nei prossimi anni dal 14% al 20% dei consumi. Vietato abbassare la guardia, insomma. E non a caso gli ambientalisti si preparano ad una nuova stagione di mobilitazioni lanciando per sabato 29 ottobre una grande manifestazione intorno alla centrale Polesine Camerini di Porto Tolle, nel parco del Delta del Po, dove l’Enel punta da tempo a riconvertire al coke il vecchio impianto a olio combustibile. Parallelamente altri presidi si svolgeranno negli altri siti su cui insistono, o dovrebbero insistere, le centrali a carbone del Bel paese: 13 impianti per circa 37 milioni di tonnellate (Mt) di CO2 l’anno (dati 2010) più altri sei che rischiano di aggiungere al conto ulteriori 28 Mt di gas climalteranti. Tanto da fare dell’Enel, con circa 40 Mt, il principale emettitore italiano di CO2 in larga parte (26 Mt) a causa proprio del coke. «Dopo la vittoria contro l’atomo – annuncia Maria Maranò, rappresentante di Legambiente nel comitato “Fermiamo il nucleare” – abbiamo promosso un forum per l’energia che guiderà le mobilitazioni contro il carbone, che adesso fa da ostacolo alle rinnovabili. Quello di Porto Tolle sarà il primo appuntamento».

Delta bollente
Proprio qui, sul Delta del Po, si consuma la battaglia forse più significativa intorno all’utilizzo del carbone. Da una parte ci sono Enel, Regione Veneto e governo affiancati da un comitato di lavoratori della centrale che temono per il proprio futuro occupazionale. Dall’altra il comitato locale dei cittadini di Porto Tolle che insieme a Greenpeace, Italia Nostra, Wwf e Legambiente si oppongono alla riconversione proponendo di alimentare la centrale a gas metano. Un conflitto che si trascina ormai da quasi un decennio fra blitz, carte bollate e anche una condanna per gli ex-vertici dell’Enel, nel gennaio scorso, per emissioni moleste, danneggiamento all’ambiente e violazione della normativa in materia di inquinamento atmosferico causato dall’impianto quando era alimentato a olio combustibile. Durante gli ultimi mesi poi il braccio di ferro ha toccato un nodo cruciale. A maggio, infatti, il Consiglio di Stato aveva bloccato i lavori di riconversione annullando la Via concessa dal ministero dell’Ambiente poiché non rispettava l’articolo 30 della legge istitutiva del Parco. Quello cioè che sostiene come «tutti gli impianti di produzione di energia elettrica presenti nel territorio dei comuni interessati al parco del Delta del Po, dovranno essere alimentati a gas metano o da altre fonti alternative non inquinanti». Come dire: per il carbone da queste parti non c’è spazio. Il governo invece è intervenuto approvando, nella manovra di luglio, un articolo “ad centralem” per superare la sentenza: il testo consente di derogare alle leggi regionali che condizionino o limitino la riconversione delle centrali ad olio combustibile da alimentare a carbone. Un colpo basso perfezionato dalla Regione Veneto, governata da Luca Zaia, che ha modificato la legge istitutiva del Parco aprendo la strada alla fonte fossile. «Se i rappresentanti del popolo modificano una norma per dare ragione ad una delle due parti in causa, lo Stato di diritto vacilla» spiega senza troppi giri di parole Matteo Ceruti, l’avvocato che difende da sempre le ragioni degli ambientalisti. La situazione adesso è di stallo: «È ricominciata una procedura di Valutazione di impatto ambientale – prosegue – Si presume che la commissione competente debba esprimersi entro le prossime settimane ma non sappiamo se l’Enel ha presentato una documentazione integrativa. Inoltre il parere sarà dato senza riascoltare le amministrazioni locali coinvolte. Siamo comunque pronti a fare ricorso nel caso la prossima Via non dovesse tener conto delle alternative, come il metano». Al Tar del Lazio pende inoltre un ricorso contro il Decreto di autorizzazione unica rilasciato all’inizio dell’anno dal ministero dello Sviluppo. E ancora, per completare il quadro della vertenza, le amministrazioni regionali possono ricorrere alla Consulta contro la norma approvata a luglio: potrebbe farlo, ad esempio, la confinante Regione Emilia Romagna, che ha già espresso il proprio no alla riconversione. 

Costi drogati
Ma la battaglia contro il carbone va ben oltre il sito rodigino. Negli altri cinque territori destinati a ospitare nuovi impianti o ampliamenti (Fiume Santo e il Sulcis in Sardegna, Vado Ligure in Liguria, Saline Joniche e Rossano in Calabria) la mobilitazione è già elevata anche a causa dei rischi per la salute che comporta il cocktail di inquinanti (fra cui arsenico, cromo, cadmio e mercurio) emessi dalla combustione. A Civitavecchia un incendio divampato ad agosto da un trasformatore, con la nube che si è sparsa su tutta la città, ha rianimato il fronte no-coke sollevando nella popolazione gli interrogativi sulla sicurezza. Mentre altrove sono i numeri a dimostrare l’iniquità di questa scelta: a fronte di una produzione del 14% di elettricità nel 2010 gli impianti a carbone hanno sforato i limiti europei (al saldo di Civitavecchia, dove le quote di allocazione fanno riferimento agli impianti “nuovi entranti”) di oltre un milione di tonnellate. «Ma quando l’economia riprenderà a correre c’è da credere che lo sforamento sarà ancora maggiore» spiega Giorgio Zampetti, dell’Ufficio scientifico di Legambiente. Anche perché fra i dieci impianti più inquinanti d’Italia, riporta il dossier dell’associazione Carbone, un ritorno al passato, figurano proprio quattro centrali termoelettriche alimentate a carbone: Brindisi Sud, Fusina-Venezia, Fiume Santo-Sassari, e Vado Ligure. E se qualcuno crede che la tecnologia per il sequestro del carbonio, che l’Enel sta sperimentando a Brindisi Sud, possa rappresentare una soluzione si sbaglia di grosso: «L’efficacia e l’impatto ambientale di questa tecnologia sono ancora da valutare, le sperimentazioni vanno a rilento in tutta Europa – spiega Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto club e del bimestrale QualEnergia – Senza contare che tutte le valutazioni indicano che non si avrà uno stoccaggio a prezzi competitivi prima del 2030». È proprio dal punto di vista economico che le contraddizioni sono evidenti: uno studio dell’istituto di ricerche McKinsey del 2009 dice che i costi per catturare la CO2 sono talmente proibitivi da richiedere l’intervento dello Stato con l’erogazione di sussidi. La Commissione europea ha inoltre stimato intorno ai 3 miliardi di euro l’anno gli aiuti dei governi per il carbone. Due di questi sono peraltro destinati alla Germania, presentata come un modello dai sostenitori del carbone, dove ancora oggi il 50% dei consumi energetici, nonostante l’ascesa delle rinnovabili, è soddisfatto dal coke. Dopo quella del nucleare sicuro, insomma, ecco un’altra bufala: quella del carbone pulito e conveniente. Gli ambientalisti sono pronti a smascherarla.

Pubblicato su Nuova Ecologia - ottobre 2011

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