14 dicembre 2010

Swaziland, un pozzo di vita

di Francesco Loiacono
In Swaziland le comunità rurali del Lubombo lavorano per accedere all'acqua. Con l'aiuto di un progetto del Cospe e di Legambiente / SFOGLIA IL PDF
Tabsile Dlamini è l’ultima donna a uscire dal piccolo recinto intorno al pozzo. Controlla che la rete non abbia buchi, che la sorgente sia protetta e chiude il lucchetto del cancello. Lo tira una, due, tre volte per sincerarsi che non si riapra. È l’unica ad avere le chiavi della sorgente. «Prima che partisse il progetto avevamo tanti problemi nella gestione dell’acqua, c’erano anche conflitti fra le comunità» ricorda sotto al pergolato del Neighborhood care point di Lukhetseni, nel cuore dello Swaziland, dove vengono accolti i bambini orfani di aids. «L’acqua era malsana – aggiunge Maria Dlamini, un’altra donna coinvolta nel comitato di gestione della sorgente – Ci ammalavamo di malaria, non avevamo neanche le latrine e per i bisogni si andava nella vegetazione, infettando così l’acqua della sorgente». Si sta realizzando qui il progetto Cospe e Legambiente, finanziato dal ministero degli Esteri, che punta a garantire l’accesso all’acqua e ai servizi sanitari della popolazione.

Tabsile Dlamini richiude il pozzo di Lukhetseni
Nel Lubombo, una regione del piccolo Stato africano dove Mswati III regna su poco più di un milione di sudditi, stretto fra i colossi Sud Africa e Mozambico. Un paese che detiene il triste primato mondiale di prevalenza del virus hiv/aids e un’aspettativa di vita alla nascita di 31 anni per gli uomini e 32 per le donne. Soffrendo inoltre la cronica carenza d’acqua potabile: solo il 42% delle persone vi ha accesso. Il resto attinge a sorgenti non protette, non dispone di servizi igienici adeguati e così diarrea, malnutrizione e malattie infettive incidono drasticamente sulla mortalità infantile. Nel Lumombo, dove la situazione è aggravata dalla malaria, Cospe e Legambiente aiutano oltre 21mila persone, divise in 15 comunità rurali, a recuperare e igienizzare le sorgenti, a realizzare latrine ben ventilate dove gli insetti non possano proliferare. Basta poco. «Puliamo il pozzo e lo proteggiamo con pietre e calce per impedire che l’acqua sporca, e piena di insetti, lo possa contaminare – spiega Mangaliso Dludlu, dello staff locale del Cospe, durante i lavori alla sorgente di Phalata – Poi un tubo, sistemato un metro sotto terra, porta l’acqua al serbatoio da cinquemila litri e da lì un altro alimenta la fontanella dalla quale attingono le famiglie. Non usiamo pompe ed elettricità, ma solo la pendenza del terreno». «Dio danzerà per voi, per ringraziarvi di ciò che state facendo» urla una donna dopo le spiegazioni di Mangaliso. «Con l’acqua pulita, queste bambine cresceranno meglio», dice l’anziana indicando due orfane: la “malattia”, l’aids, le ha private di entrambi i genitori. Una condizione comune a migliaia di minori. È proprio il futuro dei più piccoli a spingere uomini e donne a sudare sotto al sole con in mano piccone, pale e bhusha, lo strumento con cui abbattono il bush, la vegetazione. «Bevevamo la stessa acqua delle bestie – racconta davanti alla sua gente riunita sotto al grande fico Elsie Matsenjwa, rappresentante della comunità di Ematjeni – Oggi le vacche bevono l’acqua che eccede dal serbatoio, quella con cui coltiviamo pure gli orti. La nostra vita è migliorata per sempre».

L’impianto che garantisce l’acqua all’interno delle comunità costa qualche migliaio di euro e ha una vita di circa dieci anni. «I water commitee raccolgono una quota mensile per famiglia e la versano su un conto bancario – spiega il coordinatore locale del progetto, Richard Masimula – Con questi soldi devono coprire le spese di manutenzione e il ripristino dell’impianto fra dieci anni. Insomma, la sfida è rendere le comunità capaci di gestire da sole il sistema». A Sitsatsaweni l’obiettivo è ancora più ambizioso: alimentare con un pannello fotovoltaico la pompa che porterà l’acqua in un grande serbatoio in cima alla collina e da qui distribuirla alle tremila persone che vivono in questa comunità al confine con il Mozambico. «È uno degli impegni previsti dal programma – spiega Tiziana Finelli, responsabile del progetto per Legambiente – L’uso del fotovoltaico ci permette di fare cose impensabili. Raggiungiamo così due risultati: diffondiamo le rinnovabili e dotiamo di acqua potabile migliaia di persone». Che non aspettano altro.

(su Nuova Ecologia, dicembre 2010) 

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