L’azienda siderurgica presenta il bilancio Ambiente e sicurezza a porte chiuse. Esclude dalla sala i giornalisti. E utilizza a modo suo i dati di Legambiente / di Francesco Loiacono
Un ponte di veleni, sospetti e omissioni ancora oggi collega l’acciaieria Ilva a Taranto ai suoi cittadini, ai suoi lavoratori, ai suoi malati. Nonostante il siderurgico più grande d’Europa si sia dotato delle migliori tecnologie disponibili per abbattere le emissioni di diossina, come chiede la legge regionale voluta da Vendola. La diossina che fuoriesce dai camini dell’industria è diminuita, ma i tecnici dell’Arpa possono compiere rilevamenti solo “per appuntamento”, mancano ancora i campionamenti di continuo.
«Perché una centrale a turbogas, che inquina relativamente poco, deve avere quattro centraline per i monitoraggi e questo non avviene per il gigante dell’Ilva?», lamenta il direttore dell’Arpa, Giorgio Assennato, alla presentazione del secondo rapporto aziendale Ambiente e sicurezza. Un’occasione in cui i vertici dell’acciaieria hanno rivendicato con forza, davanti al presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, ai rappresentanti delle istituzioni locali e con la benedizione dell’arcivescovo di Taranto, gli sforzi fatti per inquinare meno. «Se l’Ilva cambia, Taranto cresce. È arrivato il momento di riconoscere che l’Ilva è cambiata» ha detto Fabio Riva , figlio del presidente del gruppo Emilio Riva, in una sala conferenze dell’Ilva interdetta ai giornalisti. Solo i direttori delle testate hanno potuto assistere alla presentazione, i cronisti hanno seguito i lavori confinati in una saletta.
Fuori dai cancelli, sotto a un ponteggio su cui campeggiano operai ai quali non è stato rinnovato il contratto, c’erano i legambientini in tute gialle con lo striscione “Ci siamo rotti i polmoni. Liberiamo l’aria dal benzo(a)pirene”. Dentro, nella mole di dati presenti nel rapporto, molti di origine aziendale, l’Ilva ne cita uno in modo tendenzioso, svelando le crepe dietro la facciata: «Taranto non è la città più inquinata d’Italia – afferma l’ingegner Adolfo Buffo, della direzione qualità, ecologia e sicurezza dell’Ilva – Lo dicono i dati di Legambiente che in una sua classifica sull’inquinamento da Pm10 colloca Taranto al 62esimo posto in Italia». Una citazione mal posta. «Limitarsi a citare il dato della nostra campagna Pm10 ti tengo d’occhio è un modo furbo per occultare la situazione ambientale del capoluogo jonico – replica Lunetta Franco, presidente del circolo di Legambiente Taranto – Perché omettono la classifica stilata in primavera da Legambiente in occasione dell’approvazione della direttiva europea sulle emissioni delle grandi industrie?». Secondo questa classifica, l’Ilva detiene tutti i “primati” negativi dell’Ines, l’Inventario nazionale delle emissioni e loro sorgenti.
«Sarebbe utile che dall’azienda non arrivassero più segnali contraddittori – commenta il responsabile scientifico di Legambiente, Stefano Ciafani – se da un lato si fanno interventi sugli impianti, dall’altro non si contribuisce alla realizzazione di una rete esterna di monitoraggio del benzo(a)pirene. Un sistema controllato da un ente terzo come l’Arpa è l’unica garanzia per i cittadini». L’azienda, invece, usufruisce anche di un favore governativo: il dlgs 155/2010, approvato con un blitz ferragostano, che consente di emettere fino al 2012 benzo(a)pirene oltre i limiti di legge. Così, mentre il comitato Taranto Futura spinge per ottenere un referendum per la chiusura di tutto lo stabilimento o di alcune parti, e mentre i Verdi lanciano la prima class action contro i danni da inquinamento, l’azienda invia nelle case dei tarantini 30mila copie della rivista Il Ponte: «Per creare un dialogo con i lavoratori, i loro cari e più in generale con la città», scrive nell’editoriale il presidente Emilio Riva. Un dialogo che parte, ma con poca chiarezza.
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