Pene
più severe e prescrizioni più lunghe per chi compie reati contro l’ambiente. Il Codice penale si aggiorna. Viaggio in Calabria,
fra gli epicentri dell’ecocidio di Francesco Loiacono
PDF INCHIESTA DE LA NUOVA ECOLOGIA
Intervista al giudice Piccirillo: «Per l'ambiente tutela assoluta»
Le pene per chi commette reati contro l’ambiente in
Italia s’inaspriscono. Accendere roghi di rifiuti ad esempio, come prevede il
decreto sulla “Terra dei fuochi” approvato nel dicembre scorso, comporta fra due
e cinque anni di reclusione. Ma questo non è l’unico giro di vite nella
legislazione italiana contro chi offende gli ecosistemi e la salute pubblica.
Presto infatti nel Codice penale saranno inseriti anche i delitti d’inquinamento
e disastro ambientale. Le pene previste sono rispettivamente la reclusione da uno a cinque
anni (con multa fino a 100.000 euro) e da quattro a venti anni. Una riforma epocale,
fortemente invocata da Legambiente, la cui discussione è iniziata durante le
scorse settimane alla Camera sulla base del testo approvato a fine 2013 dalla
commissione Giustizia di Montecitorio, unificando le proposte di legge avanzate
da Ermete Realacci (Pd), Salvatore Micillo (M5S) e Serena Pellegrino (Sel). Nel testo s’introduce anche il ravvedimento
operoso, con sconti di pena per chi s’impegnerà a bonificare i luoghi
inquinati, la confisca obbligatoria dei profitti legati al reato ambientale e,
soprattutto, il prolungamento dei termini di prescrizione. Inquirenti e forze
dell’ordine potranno insomma contrastare meglio i circa 30mila ecoreati l’anno,
uno ogni quattro ore, che si consumano lungo lo Stivale. L’attuale ordinamento, infatti, vista anche
la lentezza dei processi, rischia di vanificare lo sforzo di punire i colpevoli.
Come sta avvenendo in Calabria, fra le regioni più martoriate dallo smaltimento
illecito, dove i processi per alcuni gravicasi d’inquinamento
procedono a singhiozzo.
Gomorra calabra
La regione d’altro
canto, secondo il Rapporto Ecomafia 2013 di Legambiente, è al primo posto per incidenza
dei reati nel ciclo dei rifiuti in rapporto alla popolazione e seconda (dopo la
Campania) in rapporto alla superficie. Vibo Valentia e Reggio Calabria
primeggiano invece nella classifica delle province. D’altro canto centomila tonnellate
di rifiuti pericolosi sono state occultate solamente in una cava d’argilla in
località Lazzaro di Motta San Giovanni, a una ventina di chilometri da Reggio Calabria
percorrendo la Statale 106. Qui, in un’area Sic a trecento metri dal mare e a
ridosso di una zona abitata, con il consenso e la collaborazione dei
proprietari della cava, sono stati interrati rifiuti provenienti dalla centrale
Enel Federico II di
Brindisi, dopo che questi venivano declassati a rifiuti non pericolosi con
certificazioni di laboratori privati. Un affare da sei milioni di euro l’anno
per il quale dieci persone sono state arrestate nel 2009. Migliaia di camion
per un paio d’anni hanno viaggiato, carichi di rifiuti industriali, da Brindisi a
Reggio Calabria. Un traffico scoperto dalla procura di Reggio Calabria in
collaborazione con il Corpo forestale dello Stato con l’operazione Leucopetra,
dal nome antico del promontorio di Capo dell’Armi, famoso per la pietra bianca
reggina. «Agli uomini del nucleo investigativo di polizia ambientale e
forestale (Nipaf, ndr) del comando provinciale del Corpo forestale dello
stato di Reggio Calabria che hanno lavorato a questo caso, Legambiente ha
voluto consegnare il PremioAmbiente e Legalità 2010 – ricorda Nuccio
Barillà della segreteria nazionale dell’associazione – A loro va riconosciuto
il merito di aver scoperto questo traffico che ha avvelenato la nostra terra».
Il processo che nasce da questa operazione si avvicina alla fine del primo grado di giudizio. «Per la prima volta risultano imputati funzionari e quadri dell’Enel di Brindisi – racconta Angelo Calzone, l’avvocato del Wwf, costituitasi parte civile insieme a Legambiente per mezzo dell’avvocato Rodolfo Ambrosio – Questi sono accusati di aver costituito un’associazione a delinquere e un’organizzazione finalizzata allo smaltimento di rifiuti pericolosi che venivano formalmente avviati al recupero ma sostanzialmente interrati nella cava». Per questo come per altri processi, però, potrebbe arrivare presto la prescrizione. «Non si può punire una discarica abusiva, anche di grandi dimensioni, con la pena dell’arresto e dell’ammenda e una prescrizione che è al massimo di quattro anni e mezzo – aggiunge Calzone – Per questo ben venga la riforma in corso: va nella direzione giusta».
Cava di Lazzaro Motta San Giovanni (Rc) |
Il processo che nasce da questa operazione si avvicina alla fine del primo grado di giudizio. «Per la prima volta risultano imputati funzionari e quadri dell’Enel di Brindisi – racconta Angelo Calzone, l’avvocato del Wwf, costituitasi parte civile insieme a Legambiente per mezzo dell’avvocato Rodolfo Ambrosio – Questi sono accusati di aver costituito un’associazione a delinquere e un’organizzazione finalizzata allo smaltimento di rifiuti pericolosi che venivano formalmente avviati al recupero ma sostanzialmente interrati nella cava». Per questo come per altri processi, però, potrebbe arrivare presto la prescrizione. «Non si può punire una discarica abusiva, anche di grandi dimensioni, con la pena dell’arresto e dell’ammenda e una prescrizione che è al massimo di quattro anni e mezzo – aggiunge Calzone – Per questo ben venga la riforma in corso: va nella direzione giusta».
Disastro a
processo
L’ingresso dei reati
ambientali nel Codice penale consentirà di ottenere giustizia per i tanti casi
di inquinamento industriale che al Sud non mancano. Perché anche la Calabria ha
la "sua Eternit" e un processo per malattie e decessi di operai che
hanno lavorato a contatto con sostanze pericolose. Solo che questo processo si
celebra al Tribunale di Paola (Cs), lontano dai riflettori dei grandi media e a
rilento. È quello che vede sul banco degli imputati i vertici dell’industria tessile
Marlane di Praia a Mare, in provincia di Cosenza. Un’azienda fondata negli anni
Cinquanta dal conte Rivetti, poi passata al Lanificio Maratea, poi all’Eni-Lanerossi
nel 1969, quando furono abbattuti i muri che separavano i reparti di lavoro
lasciando gli operai tra i fumi delle sostanze chimiche usate per la coloritura. Nel
1987 il gruppo tessile Lanerossi venne ceduto alla Marzotto di Valdagno, che
detiene ancora la proprietà dello stabilimento calabrese. Qui, secondo
l’impianto accusatorio, alcuni degli imputati (12 dirigenti della Marzotto, ciascuno
per il proprio ruolo) avrebbero omesso i controlli sullo smaltimento degli
scarti di lavorazione in condizioni di sicurezza, determinando il riversamento,
sull’area antistante l’azienda, di rifiuti speciali pericolosi come coloranti e
fanghi. E anche l’interramento di bidoni e fusti contenenti residui di
coloranti. Nel frattempo un centinaio di lavoratori si è ammalatodi tumore, alcuni sono già
deceduti. Il 19 aprile 2011 si è svolta la prima udienza dibattimentale del
processo: Legambiente, Wwf e Vas, più Medicina democratica,Slai Cobas, Regione Calabria e i Comuni
di Praia e Tortora si sono costituiti parte civile. Oggi però, complice la
lentezza dei tempi della giustizia e della complessità del processo, si teme
che alcuni dei reati possano cadere in prescrizione. Le accuse mosse riguardano i
reati di omicidio colposo, lesioni colpose,disastro e violazione
dell’articolo 437 c.p. (rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul
lavoro). «Considerando i tre gradi di giudizio c’è il rischio che alcuni reati
si possano prescrivere – spiega l’avvocato Fabio Spinelli, che segue la causa per le parti civili
– In effetti, però, i tempi di prescrizione dei reati per i quali si procede
cambiano per ciascun capo d’imputazione. Ci sono reati
Marlane, un blitz di Legambiente |
Giustizia a
rilento
Quello alla Marlane
non è l’unico processo di cui si teme l’estinzione in Calabria. Poche settimane
fa è stato aperto il terzo troncone (i primi due sono stati archiviati) del processo all’ex
Pertusola: i materiali di scarto provenienti dallo stabilimento metallurgico crotonese
sono finiti all’interno di discariche abusive. Inoltre i rifiuti sarebbero
stati utilizzati come materiale edile per costruire scuole, palazzine, strade,
le banchine del porto e la questura. Nei Tribunali di Paola, Castrovillari, Lamezia e Catanzaro
ci sono procedimenti sul sottodimensionamento o la mancata
manutenzione dei depuratori. A Vibo Valentia è in corso il procedimento
relativo all’operazione Pet Coke, con la quale il Noe ha scoperto
l’arrivo nel porto calabrese di motonavi battenti bandiera panamense e greca cariche di
pet-coke proveniente dal Venezuela e dagli Usa e stoccato in un deposito a
Cuccuruta di Porto Salvo, pronto per essere utilizzato come combustibile nei cementifici della
zona. «Questi e altri procedimenti per reati ambientali purtroppo rischiano la prescrizione
– dice Rodolfo Ambrosio, legale di parte civile di Legambiente in Calabria – E
la macchinosità della giustizia italiana non aiuta: la procura
di Lamezia, per esempio, ha aperto una grossa inchiesta per smaltimento di
rifiuti che coinvolge 98 persone. Basta che ci sia un problema in una sola notifica a
comparire e bisogna rifarle tutte da capo. Intanto il tempo passa. Insomma, i reati
ambientali non dovrebbero andare mai in prescrizione: il disastro ambientale è
permanente, che senso ha prescriverlo?».
(Pubblicato su La Nuova Ecologia di febbraio 2014)